Fratellanza musulmana: la destra islamista amica della sinistra multiculti

Una panoramica delle ramificazioni della Fratellanza in Europa: islamisti ma con gentilezza, che, con armi da influencer e metodi da soft power, si prefiggono un rigoroso programma di graduale islamizzazione della società.

Verso il potere, con gentilezza

Non si isolano dalla società come i radicalizzati. Non imbracciano il kalashnikov né compiono attentati. Cercano il dialogo con i non musulmani occidentali – soprattutto con le istituzioni politiche e amministrative – e perseguono la via elettorale e democratica al potere. Sono i Fratelli musulmani, islamisti ma con gentilezza, che, con armi da influencer e metodi da soft power, si prefiggono un rigoroso programma di graduale islamizzazione della società.

Fondato da Hasan al-Banna nel 1928 in Egitto, il movimento ha subìto diverse fasi repressive (sia in patria che in altri Paesi islamici dove si è ampiamente diffuso), sviluppando pertanto una risposta difensiva incentrata sulla segretezza, la riservatezza e la dissimulazione. Tattiche di sopravvivenza che però ha mantenuto anche nei Paesi occidentali in cui si è installato, e che non sarebbero affatto necessarie, in assenza di persecuzione. Perché nascondersi – obiettano i detrattori della Fratellanza – se non si nutrono oscuri progetti di sovversione sociale e politica? Di fatto, non diversamente dai jihadisti, con i quali condividono la matrice ideologica (ovvero gli scritti di Sayyd Qutb, leader della Fratellanza giustiziato in Egitto nel 1966), i Fratelli si pongono l’obiettivo integralista di instaurare una società totalmente islamica, senza distinzione tra politica e religione: un programma che nei Paesi occidentali, per quanto ammorbiditi dal verbo multiculturalista, non è facile far viaggiare allo scoperto.

Per difendersi dalle critiche di chi ritiene inconfessabili i suoi scopi più reconditi, la Fratellanza risponde con un set ormai rodato di artifici retorici, che implicano, ad esempio: 1) sostenere che il progetto di uno Stato fondato sulla sharīʻa non è certo un obiettivo che riguardi il mondo occidentale, ma solo i Paesi islamici dove i musulmani sono maggioranza; 2) esibire una professione di fede democratica e inclusiva (a dispetto dell’assenza di democraticità interna di cui spesso la accusano i Fratelli fuoriusciti) che la differenzia dagli altri movimenti islamisti e le consente di avere un buon passing presso le istituzioni politiche occidentali; 3) rifugiarsi nel vittimismo, gridando all’islamofobia paranoide degli occidentali ogni qual volta emerge un sussulto critico verso le idee e i metodi della Fratellanza.

Stabilire se un singolo o un’organizzazione islamica appartengano o meno al movimento è difficile (anche se non impossibile): «Omettere, minimizzare, offuscare, e in alcuni casi negare categoricamente il loro coinvolgimento nella Fratellanza sono tattiche spesso utilizzate dagli attivisti legati alla Fratellanza dinanzi al pubblico occidentale» scrive Lorenzo Vidino[1], che all’argomento ha dedicato ampi studi. Pertanto, alla domanda diretta si otterranno risposte svianti (come ad esempio «Non prendiamo ordini dal Cairo») che giocano sulla natura informale dei legami tra la Fratellanza occidentale e la casa madre egiziana. L’appartenenza o meno di un ente all’organizzazione, pertanto, non va valutata in base ai suoi rapporti con la Fratellanza d’Egitto o con il mondo arabo: quando si parla di Fratellanza musulmana «ci si riferisce a tre realtà distinte ma strettamente connesse, definibili in gradi di intensità decrescenti, come le organizzazioni della Fratellanza pura, le org…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.