Per un’iconografia della guerra

Se nell’arte antica e moderna la guerra è un’epica, un affare di potere, di vincitori e nemici, successivamente essa è raffigurata soprattutto nei suoi effetti più dolorosi e nefasti. Dall’antico Egitto all’Ucraina, una panoramica della sua evoluzione iconografica attraverso alcuni episodi esemplari.

La guerra in Ucraina viene combattuta (anche) con le immagini, usate come un dispositivo militare di sorprendente importanza capace di orientare e produrre sensibile. Per rendercene conto, è sufficiente scorrere il feed del profilo Instagram di Volodymyr Zelens’kyj, dove nei settanta giorni trascorsi dal 24 febbraio 2022, data dell’invasione russa dell’Ucraina, al 4 maggio (mentre concludo questo articolo), sono stati pubblicati 591 post (immagini singole, caroselli, video) spesso raggiungendo, e talvolta superando, anche i dieci post al giorno. Chiunque lavori nella comunicazione e in particolare nel social media managing di un’azienda sa quanto lavoro e controllo ciò comporti, e non è un caso che l’innovativa strategia comunicativa, diplomatica e politica del presidente ucraino, in grado di coinvolgere, appassionare e reclutare l’opinione pubblica estera, sia stata analizzata da sociologi ed esperti del settore. In poco tempo, il profilo personale di Zelens’kyj, che il 24 febbraio aveva circa 12 milioni di follower, è arrivato a 17 milioni, quasi raggiungendo quello istituzionale del presidente degli Stati Uniti d’America (poco meno di 19 milioni), oggi usato da Joe Biden ma in passato già “abitato” da personaggi indubbiamente più carismatici come Donald Trump e Barack Obama (ha comunque più follower di tutti loro, per la precisione 26.921.297, la nostra Chiara Ferragni, che però è nel campo da molto più tempo).

Per proseguire il paragone con altri leader coinvolti in questa guerra, vediamo che a partire dalla stessa data del 2022 i post pubblicati da Joe Biden sono oggi solo 180 e peraltro non tutti dedicati, ovviamente, alla situazione in Europa orientale. In Russia invece, dove in passato Vladimir Putin ha dichiarato di non avere tempo per i social e di non possedere uno smartphone, lo scorso 14 marzo il Roskomnadzor (agenzia federale per la supervisione delle comunicazioni, della tecnologia dell’informazione e dei mass media istituita nel 2008 da Dmitrij Medvedev) ha addirittura oscurato Instagram, definendo Meta Platforms, Inc. una “organizzazione estremista” e annunciando di voler avviare contro l’azienda americana un’azione legale per aver veicolato propaganda russofoba.

Prima della chiusura della piattaforma, molte personalità o istituzioni pubbliche russe si sono accomiatate invitando i loro follower a seguirle su Telegram, servizio di messaggistica istantanea che per ora resta aperto in Russia, sebbene anche la società fondata dai giovani fratelli Nikolaj e Pavel Durov (sede a Dubai) sia stata in anni passati minacciata di chiusura dallo stesso governo russo per non aver ceduto le chiavi crittografiche delle chat dei suoi utenti. Se guardiamo il profilo Instagram del prestigioso Museo Hermitage di Pietroburgo, per esempio, ci accorgiamo che uno degli ultimi post pubblicati prima del veto governativo mostra la foto di due splendidi pezzi della sua collezione scultorea avvolti in una vellutata e malinconica penombra, mentre raggi di luce entrano diagonalmente dalla finestra accarezzando la superficie levigata dei marmi. Il titolo dell’immagine è Солнце в Музее, “il sole nel museo”, corrispondente a un hashtag …

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.