Nella guerra: nazionalismo, imperialismo, cosmopolitica

Quali definizioni possono essere proposte per la guerra in corso in Ucraina? In che modo essa ridefinisce la funzione del nazionalismo? Come articola spazi politici eterogenei in una struttura globale di conflitti e agenzie? L’analisi del filosofo francese Étienne Balibar.

Per la maggior parte delle questioni che esaminerò, devo confessare che non ho una risposta. Peggio: in molti casi, temo che risposte non ce ne siano. Tuttavia, questo non può impedirci di cercare tali risposte, e prima ancora di trovare la corretta formulazione delle domande stesse, con l’aiuto di tutto ciò che possiamo imparare e discutere criticamente. La guerra in Ucraina solleva questioni di interesse universale, ci colpisce e lo farà sempre più: riguarda il nostro presente, il nostro futuro collettivo, il nostro posto nel mondo. Rispetto a questa guerra, non siamo osservatori distanti o neutrali, siamo partecipanti e il suo esito dipenderà anche da ciò che pensiamo e facciamo. Siamo nella guerra. Non possiamo “disertare la guerra”, come ha scritto il mio collega Sandro Mezzadra in un solido manifesto pacifista. Il che non vuol dire che dobbiamo fare la guerra in tutte le forme immediatamente proposte. Le nostre possibilità di scelta sono probabilmente molto limitate, ma non dobbiamo decidere che non ce ne siano.

Ma di che guerra si tratta? Anche questo non possiamo dirlo con assoluta certezza. Perché non abbiamo una percezione completa di quali spazi stia occupando la guerra, al di là dell’evidente territorio che è stato invaso dagli eserciti russi lo scorso febbraio e di alcune zone adiacenti. Questioni cruciali sull’intensità della guerra e sulle sue ramificazioni oltre l’Ucraina, forse nel mondo intero, sono in sospeso mentre la guerra si dispiega e cambia progressivamente carattere. Da esse dipendono anche le ipotesi che possiamo formulare sulle forme che la politica (come pratica istituzionale e collettiva) potrebbe assumere nella e dopo la guerra (se ci sarà un “dopo”). Nella sua famosa frase, ripetuta fino alla nausea, Clausewitz ha affermato che «la guerra è una continuazione della politica con altri mezzi». Ma una domanda ancora più decisiva è: quale politica può continuare durante la guerra, e come la guerra trasformerà le condizioni e il contenuto stesso della politica nel suo dopoguerra?

Discuterò questi problemi a partire da tre temi principali. In primo luogo, “cosa c’è in una guerra?”, o quali definizioni possono essere proposte per la guerra in corso? In secondo luogo, in che modo questa guerra ridefinisce la funzione del nazionalismo e il divenire della stessa “forma-nazione”? Terzo, come articola diversi spazi politici in una struttura globale di conflitti e agenzie?

Cosa c’è in una guerra?

La mia ipotesi in questa prima parte è la seguente: il “carattere” della guerra in corso è impossibile da cogliere se non si applicano in successione più “griglie” che operano a diversi livelli ed evidenziano diverse modalità del conflitto. La guerra è quindi essenzialmente multidimensionale: si sviluppa su più “teatri” a ritmi diversi. Ma dobbiamo decidere a quale aspetto concedere priorità nella nostra valutazione politica della “posta in gioco”, ordinando i nostri interventi, nei luoghi in cui ci troviamo per storia e geografia (ad e…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.