La privatizzazione dell’agricoltura

I brevetti sulla genetica delle piante hanno affossato la sostenibilità del sistema agricolo globale. L’alternativa? Rompere le catene dell’oligopolio per difendere l’agrobiodiversità. Intervista a Fabio Ciconte, autore del libro “Chi possiede i frutti della terra” (Laterza).

In principio era soltanto un albero di mele, i cui frutti, stranamente gialli, erano squisiti. Talmente buoni che Lyod e Paul Stark, rampolli di una delle aziende vivaistiche più importanti degli Stati Uniti, addentata la mela prelibata, non seppero frenare l’entusiasmo: Paul fece bagagli e attraversò il Paese a stelle strisce con ogni mezzo possibile allora – era il 1914 e i voli low cost erano pura fantascienza – per giungere in una località remota nel West Virginia. Qui, sganciò 5mila dollari ad Anderson Mullins, proprietario della fattoria dove brillava in lontananza, sul fianco di una montagna, l’albero d’oro che aveva stregato la famiglia Stark. E il tenutario accettò l’offerta senza tentennamenti.
Paul, per garantirsi la proprietà assoluta della pianta, decise di rinchiuderla in una gabbia metallica. Nessuno, così, avrebbe potuto strappare un ramoscello e “clonare” il succoso frutto per trarne profitto.

Questo non è l’incipit di una serie tv o di una fiaba per bambini. “Quella mela in gabbia rappresenta nient’altro che l’inizio, il punto nodale su cui negli anni si è sviluppata la legislazione sulla proprietà intellettuale delle piante, il brevetto sui vegetali, l’idea cioè che quel ritrovato agronomico, benché frutto di una selezione naturale, anzi frutto della casualità, diventi di proprietà esclusiva di chi l’ha acquistato”.

Queste poche righe sono il capitolo iniziale di una storia vera, raccontata per filo e per segno da Fabio Ciconte, scrittore e saggista, direttore dell’associazione ambientalista Terra!, nella sua ultima fatica giornalistico-letteraria pubblicata da edizioni Laterza. “Chi possiede i frutti della terra” è un saggio narrativo su come il capitalismo abbia affossato la sostenibilità del sistema agricolo globale. Come le logiche del profitto abbiano trasformato, decennio dopo decennio, la naturale effervescenza delle campagne in una monumentale macchina da prodotti standardizzati. Accaparramento e privatizzazione della genetica delle piante: una storia che arriva fino ai giorni nostri, i cui effetti – assicura l’autore – avranno forti ripercussioni negli anni a venire.

In seguito, quindi, come scrive l’autore, le sbarre metalliche attorno alla pianta miracolosa adocchiata dagli Stark, divennero paradossalmente il grimaldello per l’industrializzazione delle filiere agroalimentari. “Se vi state chiedendo che fine abbia fatto la mela in gabbia la risposta è semplice: è la capostipite della Golden Delicious, ancora oggi tra le mele più vendute al mondo”. Lo stesso melo, replicato all’infinito per oltre un secolo.

Nel 1930, avviene la trasmutazione dei lucchetti: la prigione nel West Virginia si condensò in un atto legislativo. Il Plant Patent Act, votato dal Congresso degli Stati Uniti, “è un semplice emendamento che va a modificare la legge sui brevetti già approvata oltre cento anni prima e che cambierà la storia dell’agricoltura”, scrive Ciconte. Il primo passo verso lo scenario distopico che quotidianamente viviamo. Nel corso del tempo, genetisti, biologi, agronomi e scienziati si intestarono la paternità di innumerevoli varietà, create “artificia…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.