Un film sulla fame. Di verità

"L’ombra di Stalin – Mr Jones" è una delle rarissime evocazioni di uno dei crimini di massa più terribili del XX secolo, commesso da Stalin in Ucraina.

«Giovani, studiate la Storia. È nella storia che si trovano tutti i segreti dell’arte di governare», avrebbe detto un giorno Winston Churchill all’adolescente James Humes, futuro redattore dei discorsi di numerosi presidenti degli Stati Uniti. Se comprendere il presente alla luce del passato si rivela interessante, è perché esso offre chiavi interpretative utili a cogliere meglio fatti e situazioni che talvolta affondano le loro radici in un tempo lontano. E il conflitto attuale tra la Russia e l’Ucraina non si sottrae a questa osservazione.

È in questa prospettiva che bisognerebbe vedere o rivedere il formidabile film L’ombra di Stalin, opera della grande regista polacca Agnieszka Holland, uscito nelle sale nel 2020. Holland, del resto, ha diretto numerosi film sui capitoli più tenebrosi della storia europea contemporanea. Basti ricordare che si è imposta all’attenzione dei cinefili con lo sconvolgente Europa Europa, girato nel 1990 e ambientato durante la Seconda guerra mondiale.

In L’ombra di Stalin – Mr Jones, Holland racconta un momento della vita del giornalista gallese Gareth Jones, che nel 1933 raccontò, rischiando la vita, il terribile genocidio organizzato da Stalin in Ucraina e conosciuto col nome di Holodomor. Presentato alla 69a edizione del Festival del cinema di Berlino, il film è sostenuto da un solido cast, a cominciare da James Norton, nel ruolo del protagonista, affiancato da Vanessa Kirby e dall’impeccabile Peter Sarsgaard.

Nel trailer del film, la cineasta avverte: «Con la sceneggiatrice, Andrea Chalupa, abbiamo voluto descrivere in maniera evocativa, con molta semplicità e senza diversivi, l’esperienza esemplare di Jones, che ha attraversato in successione tutti i cerchi dell’inferno, allorché il suo giovanile idealismo, le risorse morali della sua giovinezza e del suo coraggio, furono costretti a misurarsi nell’urto catastrofico con una realtà brutale. Il film non sviluppa nessun esplicito lieto fine, perché nessuno voleva intendere la verità sulle atrocità perpetrate da Stalin che Jones andava svelando». Gli inglesi, così come le altre cancellerie occidentali, non avevano alcun interesse a farlo: «La verità sulla realtà sovietica, così come la verità sull’Olocausto, sono state soffocate da un Occidente politicamente e moralmente corrotto», aggiunge la regista.

L’Holodomor, il genocidio per fame

Tuttavia il ricordo di quel periodo è così doloroso per l’Ucraina – una sofferenza propriamente transgenerazionale – che in esso si può ancora cogliere una delle cause (anche se, ovviamente, non la sola) della collaborazione di alcuni ucraini al fianco dei nazisti, prima e durante la Seconda guerra mondiale. «L’indicibile realtà di quegli anni – dichiara la regista – resta ancora di grande attualità in una Ucraina in guerra con i successori di Stalin, e in un’Europa in preda alle molteplici minacce interne ed esterne, incapace di fronteggiare la verità e di unirsi per difendere i suoi valori».

Al di là del suo atroce contenuto, il film trova perciò una singolare risonanza per quel che concerne le fake news, i campanelli d’allarme – come appunto la testimonianza di Gareth Jones – ma anche la disinformazione, la corruzione dei media, il loro senso o piuttosto la loro assenza di etica, la pavidità dei governi, l’indi…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.