The Beatles: sessant’anni e non li dimostrano

Sessant’anni dopo il primo 45 giri, molti dei brani dei Beatles potrebbero essere hit dell’oggi. Grazie a un’alchimia miracolosa e irripetibile, Paul McCartney, John Lennon, George Harrison e Ringo Starr hanno riscritto i canoni del Rock and Roll diventando icone pop trasversali alle generazioni.

Era il 1962, sono passati sessant’anni tondi da quando quattro ragazzi di Liverpool, all’apparenza più attenti al look che alla musica che facevano, incidono, negli studi di Abbey Road, Love Me Do, un quarantacinque giri che sbanca a Liverpool, dove la band gode già d’un discreto pubblico, soprattutto femminile. La canzone non pare quella che cambia la storia, è brano semplice, orecchiabile, facile da canticchiare. Cose così se ne suonavano tante nei pub, i gruppi Beat di quegli anni ne mettevano su nastri e vinili a bizzeffe. Ma c’è già un fremito particolare in quelle note quasi scontate, in quelle liriche per qualche aspetto persino banali. Paul McCartney, John Lennon, George Harrison e Richard Parkin Starkey, che sarebbe divenuto universalmente noto come Ringo Starr, parevano già altro. I primi tre lavoravano insieme già da un po’, si conoscevano dai tempi del liceo. Disse George di quegli anni, riferendosi a Paul: “… viaggiavamo sullo stesso autobus, indossavamo la stessa uniforme della scuola, tornavamo a casa dal Liverpool Institute. Scoprii che aveva una tromba e lui scoprì che io avevo una chitarra, e ci mettemmo insieme. Io avevo circa tredici anni, lui forse ancora tredici anni, o già quattordici”. E di John: “Io e John ci vedevamo molto, veniva spesso a casa mia. Mia madre era una grande appassionata di musica e le faceva veramente piacere che io me ne interessassi; era stata lei a comprarmi la chitarra ed era veramente felice di avere i ragazzi del gruppo per casa, John non vedeva l’ora di andarsene da casa sua per via della zia Mimi, che era molto severa e rigida; era sempre molto imbarazzato da Mimi e imprecava contro di lei. Ricordo una volta d’essere andato a casa di John, subito dopo esserci incontrati. Frequentavo ancora l’Institute e sembravo un po’ giovane; cercavamo di avere un aspetto da Teddy boy, e io dovevo esserci riuscito bene perché non piacqui per nulla alla zia Mimi. Rimase sconvolta e disse: ‘Guardalo! Perché hai portato a casa mia un tipo simile? È orribile, sembra un Teddy boy’. E lui: ‘Stai zitta, Mary, stai zitta’. Così veniva parecchio a casa mia e mia madre ci offriva dei bicchierini di whisky”.

Li aveva notati l’imprenditore discografico e manager Brian Epstein che mise sul piatto la forza di distributore di dischi del negozio di famiglia per convincere George Martin della Emi ad ascoltarli, a dargli un’opportunità. Ringo era arrivato per ultimo, a sostituire Pete Best, troppo introverso, caratterialmente scostante, divisivo per una band che doveva inserirsi nel nascente panorama del British Pop. “Ricordo il momento, ero lì in piedi e guardai John e poi George, e il nostro sguardo diceva, ‘Dannazione. Che roba è questa?’”, raccontò Paul McCartney della prima volta che i Beatles suonarono con Ringo Starr. “E quello fu il momento, quello fu l’inizio, davvero, dei Beatles”. Dopo quel disco, comunque, al massimo ci si poteva aspettare il tutto pieno al Cavern Club o in altri locali di culto di Liverpool. Su scala nazionale le cose, infatti, non vanno granché, ma il disco raggiunge comunque il diciassettesimo posto …

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.