L’Ucraina dentro di sé: la sinistra italiana al bivio

L’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia di Putin sollecita a domandarsi se la sinistra di movimento del nostro Paese ha la forza e la volontà di rimettersi in discussione e cambiare la propria identità, in una direzione che sia all’altezza delle sfide del presente.

Del viaggio di Susan Sontag ad Hanoi durante la guerra del Vietnam, in solidarietà con la resistenza comunista all’invasione statunitense del 1965, rimarrà una frase, un monito quasi, ad attraversare il movimento della contestazione sessantottina che si svilupperà di lì a poco fra la Sorbona e la California: “Portare il Vietnam dentro di sé”. Lo ha ricordato, fra gli altri, la storica e militante femminista Anna Bravo in un saggio a chiusura del volume Il ‘68 sequestrato a cura di Guido Crainz, dedicato ai movimenti di contestazione “al di là” della cortina di ferro, che tanto ci re-interrogano nella pressante attualità. Bravo spiega come – oltre al concreto appoggio alla lotta anti-imperialista del popolo vietnamita e allo sviluppo del movimento contro la guerra negli Stati Uniti – la metafora simboleggiasse la sfida del “trasformare sé stessi, in uno scontro interno fra la parte di ciascuno che rappresenta le forze dell’autoritarismo, la parte che incarna il bisogno di liberazione, la parte che cerca di sottrarsi a questa dicotomia”. Una sfida non priva di contraddizioni e se vogliamo anche di fallimenti, che costituisce però uno dei lasciti più importanti e sinceri di quella stagione, che contribuì pure alla formazione di una nuova idea di sinistra e di internazionalismo dei paesi occidentali. Una sfida, dice sempre Bravo, che deve mettere in conto anche “le sofferenze – perché i condizionamenti esistono, esistono le complicità interiori, e liberarsene può essere duro”.

A otto mesi dall’inizio di quella che il presidente russo Vladimir Putin chiama ‘operazione speciale’, e che è però un’invasione su larga scala del paese confinante con tanto di annessione di territori, verrebbe da riprendere ancora una volta quelle parole e sostituire il Vietnam – sia in senso letterale che metaforico – con l’Ucraina. Siamo capaci, cioè, di portare l’Ucraina dentro di noi e provare a percorrere le strade cui ci porta questa affermazione di principio? Sabato scorso si è svolta a Roma la manifestazione probabilmente più partecipata nel nostro paese degli ultimi dieci-quindici anni: oltre 100mila persone hanno sfilato nel centro della capitale per chiedere la pace e la cessazione immediata delle ostilità.

La piattaforma che ha lanciato l’iniziativa ha visto il forte protagonismo del sindacato confederale della Cgil, a tutti gli effetti la forza maggiormente visibile in piazza, e di diverse realtà pacifiste come la Rete Pace e Disarmo o l’associazionismo cattolico, come la Comunità Sant’Egidio e le ACLI. Il comunicato di convocazione della piazza – ineccepibile da un punto di vista teorico – lasciava però spazio a una grossa difformità di posizioni e glissava (probabilmente di proposito) su quelli che sono stati i maggiori punti di divisioni “a sinistra” nei primi momenti dell’invasione: l’invio di armi allo Stato ucraino, uno su tutti; il giudizio sulle responsabilità della Nato e dell’Ue nel favorire la guerra (e soprattutto nel ruolo che queste entità dovrebbero assumere nel conflitto) e il tipo di appoggio e sostegno che dovrebbe essere accordato alla resistenza del paese invaso (cui, nel comunicato, si concede un generico “rispetto”).

Sinistra al bivio
Tant’è ch…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.