La riscoperta dell’Europa

In questo saggio inedito in italiano l’autore di “La fattoria degli animali” analizza il cambio di paradigma che si può leggere negli scrittori inglesi prima e dopo la Grande guerra. Se nei primi regna un certo superficiale ottimismo e una cieca fiducia nel futuro, le opere scritte dopo la tragedia della prima guerra mondiale non possono non riflettere il disincanto nei confronti dello sviluppo tecnologico e della moderna civiltà materialistica. Un’esperienza che secondo Orwell ha prodotto scritti più adulti e con una portata più ampia, che hanno ristabilito i contatti con l’Europa e riportato il senso della storia e la possibilità della tragedia.
La riscoperta dell'Europa

La riscoperta dell’Europa di George Orwell

Quando ero un ragazzino e mi veniva insegnata la storia – molto male, ovviamente, cosa valida per quasi tutti in Inghilterra – pensavo a essa come a una sorta di lungo rotolo intervallato da spesse righe nere. Ognuna di queste righe segnava la fine di quello che viene chiamato “periodo” e indicava che ciò che vi faceva seguito era completamente diverso da ciò che la precedeva. Era quasi come il rintocco di un orologio. Per esempio, nel 1499 eri ancora nel Medioevo, con cavalieri in armatura che cavalcavano l’uno verso l’altro brandendo lunghe lance, e poi improvvisamente l’orologio batteva il 1500, e tu ti ritrovavi in qualcosa chiamato Rinascimento, e tutti indossavano gorgiere e farsetto ed erano impegnati a depredare navi del tesoro nella Spanish Main.

Un’altra riga nera molto spessa era tracciata in corrispondenza dell’anno 1700. Dopo era il XVIII secolo, e le persone improvvisamente non erano più cavalieri e teste rotonde 2 ma gentiluomini straordinariamente eleganti in calzoni al ginocchio e cappello a tre punte. Si incipriavano tutti i capelli, usavano il tabacco da fiuto e parlavano con frasi perfettamente equilibrate, che sembravano tanto più artificiose perché per qualche motivo non capivo che pronunciavano la maggior parte delle loro s come f. La storia era così nella mia testa: una serie di periodi completamente diversi che cambiavano bruscamente alla fine di un secolo, o comunque in una data ben precisa.

In realtà queste brusche transizioni non accadono, né nella politica, né nei costumi né nella letteratura. Ogni epoca continua a vivere nella successiva: deve farlo, perché ci sono innumerevoli vite umane che abbracciano questi intervalli. Eppure cose simili ai “periodi” esistono. Riteniamo che la nostra epoca sia profondamente diversa, per esempio, dal primo periodo vittoriano, e uno scettico del XVIII secolo come Gibbon si sarebbe sentito tra selvaggi se fosse stato improvvisamente catapultato nel Medioevo.

Ogni tanto succede qualcosa – senza dubbio in definitiva riconducibile a cambiamenti nella tecnica industriale, sebbene la connessione non sia sempre ovvia – e l’intero spirito e il ritmo della vita cambiano e le persone acquisiscono una nuova mentalità che si riflette nel comportamento politico, nei modi, nell’architettura, nella letteratura e in tutto il resto. Nessuno oggi potrebbe scrivere una poesia come Elegia scritta in un cimitero campestre di Thomas Gray, per esempio, e nessuno avrebbe…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.