Deglobalizzazione: il rischio di una nuova guerra fredda

A partire dalla crisi finanziaria globale del 2008/2009 sono cresciuti i segnali di chiusura ai commerci e ai movimenti di capitale e lavoro. Se ne è fatto interprete Trump con “America First” ma Biden sta mantenendo la stessa posizione nelle relazioni commerciali fra Stati Uniti e Cina. Di fronte ai rischi che tutto ciò comporta, è utile pensare a una deglobalizzazione illuminata, ispirandosi agli aspetti migliori dell’Unione europea.

A partire dalla crisi finanziaria globale del 2008/2009, nel mondo si sono avuti molteplici segnali di chiusura ai commerci e ai movimenti di capitale e lavoro, fenomeno che ha preso il nome di “deglobalizzazione”. Basti pensare allo slogan “America first” di Donald Trump, ma anche alla posizione tenuta dal suo successore, Joseph Biden, rispetto alle relazioni commerciali fra Stati Uniti e Cina. Si parla insistentemente di riportare a casa quelle attività che erano state delocalizzate al di fuori dei confini nazionali (reshoring), di spostarle in paesi amici (friendshoring), o in paesi vicini fisicamente (nearshoring), fino ad arrivare a proporre una vera e propria separazione delle economie dei paesi “buoni” da quelle dei paesi “cattivi” (decoupling). La divisione del lavoro a livello internazionale sulla base dei vantaggi comparati sembrava un mantra indiscutibile fino a pochi anni fa, mentre di questi tempi il nuovo mantra, ampliando il concetto di difesa nazionale che già permetteva di giustificare politiche protezioniste, si concentra sulla necessità di proteggersi dalla possibile minaccia rappresentata dalla crescita di potenze straniere (la Cina), come dimostrano il documento della Casa Bianca licenziato da Donald Trump nel 2020 (il titolo del documento si riferisce esplicitamente a “minacce” che deriverebbero dal dover dipendere da “avversari esteri”); quello licenziato da Joseph Biden del 2021; il documento del Parlamento europeo, che fa riferimento esplicito alle “opzioni per il reshoring della produzione in Europa; gli interventi del Ministro del Tesoro americano, già Presidente della Federal Reserve, Janet Yellen; e infine di Christine Lagarde, Presidente della Banca centrale europea e già Presidente del FMI.

A tutto ciò hanno contribuito in primo luogo la stessa crisi finanziaria globale, che ha rotto il periodo di stabilità seguito alla caduta dell’URSS (acuendo così le difficoltà risultanti dalla deindustrializzazione lamentata negli Stati Uniti che ha dato poi origine ai ben noti movimenti populisti e sovranisti), per poi proseguire con la pandemia e l’invasione russa dell’Ucraina. Questi ultimi eventi hanno reso chiaro il fatto che il dipendere da catene del valore disperse in varie parti del globo (e in paesi che nei frangenti di difficoltà avevano dimostrato di curare in primo luogo le proprie esigenze) e/o i cui anelli principali risultavano basati in paesi ritenuti in futuro potenzialmente ostili poteva rappresentare un vulnus per le economie nazionali.

L’acronimo T.I.N.A (There is no alternative, non c’è alternativa – alla globalizzazione, si intende dire) introdotto negli anni Ottanta dall’allora premier britannica Margaret Thatcher, quindi, non è necessariamente verificato…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.