Moshe Kahn, il “traduttore degli intraducibili”

Il "traduttore degli intraducibili" Moshe Kahn, il più premiato al mondo per la letteratura dall'italiano al tedesco, voce di Horcynus Orca in Germania, racconta il suo "viaggio in Italia" di una vita intera, a cavallo fra la letteratura e la lingua. Un amore per il nostro Paese cominciato con la passione, ancora viva e attiva, per l'opera lirica e il teatro.

Da molto tempo desideravo condividere lo scambio e le chiacchierate semiserie che da qualche anno coltivo con Moshe Kahn tra Berlino, Roma e Marrakesh, suo luogo di ritiro per lavorare in pace o per riposarsi dall’ultima traduzione. Considerato da sempre il maggior traduttore dall’italiano al tedesco, l’autore ha al suo attivo circa 140 traduzioni, anche dall’inglese e dal francese. Pluripremiato sia in Italia sia in Germania, ha vinto tra gli altri il Premio Paul Celan del Deutscher Literaturfonds per l’opera di una vita, con particolare considerazione della versione tedesca di Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo nel 2015. Sempre per Horcynus Orca, ha vinto anche il Premio italo-tedesco per la Traduzione del Ministero degli Affari Esteri, e infine il Premio Nazionale Italiano nel 2018.

Cominciamo dall’inizio. Sei nato a Düsseldorf, ma molte vicissitudini storico-politiche ti hanno portato altrove già durante la tua infanzia e adolescenza. Chi era Moshe Kahn prima di diventare il traduttore dall’italiano numero uno?

Innanzitutto desidero ringraziarti per questa opportunità di raccontarmi. Ebbene, durante la guerra i miei genitori erano riusciti a fuggire proprio all’ultimo momento, nel 1942, in Svizzera, con l’aiuto di stretti amici di mia madre, in una situazione estremamente pericolosa per tutti. Ho passato poi la mia prima infanzia e parte della giovinezza a Zurigo e Losanna.

Provieni da studi di filosofia e teologia rabbinica e di orientalistica, e ti ponevi una serie di domande sul popolo ebraico. Che rapporto hai oggi con la religione e la cultura giudaica?

Durante tutta la mia giovinezza mi sono posto un’ unica domanda: come mai tutto quell’odio verso gli ebrei? Le risposte mi sono arrivate con gli anni e con gli studi. Ed erano deprimenti. Oggi, direi che il mio iniziale impegno di militanza si è quietato. Ma desidero sottolineare che la mia visione etica e morale del mondo è fortemente caratterizzata dall’ebraismo che considero tutt’ora una condizione e una fede estremamente umana, molto diversa da tutti i pregiudizi e le malvagità che lo accompagnano da secoli e millenni.

Avresti dovuto diventare banchiere, cosa che non era proprio quello a cui aspiravi. Invece lo erano il teatro, la musica operistica.

Sì. Banchiere, io! Era il sogno di mia madre, perché era quasi un impegno ereditato da alcuni rami della famiglia. Ma non mi interessava. Avevo da sempre un forte interesse per il teatro, per la lirica. Da voce bianca ho cantato all’opera di Zurigo la parte di uno dei tre fanciulli che guidano, nel “Flauto magico”, Tamino alla sua Pamina. Ho cantato il ragazzo pastore nel terzo atto di “Tosca”, anche la parte di Hänsel in “Hänsel und Gretel”. È bastato per consegnare definitivamente l’anima alla lirica e al teatro.     

Ti sei anche interessato in seguito di molte altre cose, prima tra tutte di cinema, per parecchi anni. Allora vivevi a Roma e te la sei spassata. Erano i favolosi anni Sessanta e Settanta… Hai lavorato anche tra gli altri con Visconti e Fellini.

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.