Maastricht, la follia di un’unione monetaria senza un’unione politica

A trent'anni dal Trattato di Maastricht ripercorriamo la storia dell'unione monetaria europea. Un’unione incompleta, poiché a differenza di quella statunitense non poggia le basi su un'unità nazionale, essendo inoltre influenzata dalla ristretta mentalità neo-mercantilista caratteristica del suo Paese dominante, la Germania.
Maastricht

L’analisi economica delle aree valutarie ottimali, che fu sviluppata a cavallo fra anni Cinquanta e Settanta dello scorso secolo da prestigiosi economisti quali James Meade, Robert Mundell e John Marcus Fleming, ebbe in realtà ricadute negative sull’opportunità di un’unificazione monetaria europea, trattandosi questa di un’area considerata troppo disomogenea al suo interno. Un’unificazione monetaria implica infatti almeno tre importanti limitazioni alla politica economica di un Paese: la perdita dello strumento del tasso di cambio per riaggiustare i conti con l’estero; i vincoli alla politica fiscale legati all’assenza di una banca centrale nazionale quale prestatore di ultima istanza allo Stato (uno Stato con una propria banca centrale è sempre solvibile); la perdita della politica monetaria, ovvero della libertà di fissare il tasso di interesse e di controllare i movimenti di capitale.

Già nel regime del gold standard durante la Belle Époque, regime a cui l’Euro è stato autorevolmente assimilato per esempio da Michael Bordo, era emersa l’asimmetria degli aggiustamenti di bilancia dei pagamenti in cui il carico dell’aggiustamento ricadeva soprattutto sui Paesi in disavanzo, costretti a politiche deflazionistiche, senza la cooperazione dei Paesi in avanzo. Il gold standard favorì inoltre crisi finanziarie nei Paesi periferici (come Argentina o Russia). Viceversa nel sistema di Bretton Woods dei primi due decenni del secondo dopoguerra gli Stati Uniti non fecero mancare il sostegno alle bilance dei pagamenti e alla ricostruzione dei Paesi amici attraverso gli investimenti all’estero delle loro imprese e i gli aiuti diretti ai governi locali (inclusa la spesa per armamenti). Anche il sostegno americano alla domanda interna costituì un prezioso impulso all’economia mondiale. Così facendo gli Stati Uniti agivano da Paese leader. Avendo in mente l’ormai affermatosi neomercantilismo tedesco, nel 1961 Robert Mundell dubitava che il Paese leader di un’eventuale unione monetaria europea avrebbe agito in senso così propulsivo e non invece nella direzione degli aggiustamenti asimmetrici del gold standard. Mundell concluse che gli aggiustamenti asimmetrici avrebbero impresso una tendenza deflazionistica al complesso dell’unione monetaria. Gli orientamenti mercantilisti del Paese leader in Europa, già palesi (vorrei dire sfacciati) negli anni Cinquanta, e il suo rifiuto di svolgere il ruolo di leader espandendo la domanda interna, erano incompatibili con un’unione monetaria funzionante. Nessuno invece rilevò, se non agli albori della crisi europea dello scorso decennio, che un’unificazione monetaria in quanto sistema di cambio fisso (simile a un currency board o ad una dollarizzazione) potesse generare crisi finanziarie fra Paesi core e Paesi periferici se non era accompagnata da uno stretto controllo dei movimenti di capitale. Non vi furono crisi finanziarie negli anni di Bretton Woods, in cui vigeva il controllo dei movimenti speculativi di capitale; furono invece numerose nel gold standard e dagli anni Ottanta nei Paesi emergenti che avevano fissato il cambio col dollaro liberalizzando i flussi di capitale (il caso più eclatante quello del currency board Argentino).

Nei primi anni Settanta, anche in seguito alla crisi del regime di Bretton Woods, si tornò a parlare di unificazione monetaria europea. All’epoca i progetti contemplavano sia una banca centrale in comune sia la creazione di un bilancio federale di una certa dimensione con compiti redistributivi e di contrasto al ciclo economico. Di questo non si fece nulla. Nel frattempo negli anni Settanta l’epoca keynesiana volgeva al tramonto, anche perché la crisi palese del modello sovietico rendeva meno urgente al capitalismo di mostrare un volto benigno. Ritornarono così in auge posizioni pre-keynesiane, in politica e nell’analisi economica.

Nel nostro Paese segni della svolta neoliberista della politica economica furono l’adesione italiana allo SME nel 1979 (su cui il PCI ruppe il governo di unità nazionale con un discorso di Napolitano), e il divorzio tra Bankitalia e Tesoro ordito nel 1981 da Andreatta e Ciampi senza sentire l’esigenza di rendere l’opinione pubblica edotta delle possibili conseguenze sul cost…

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