Nostalgia di crociate

L'ideologizzazione della guerra è un fenomeno storico soggetto a molti andirivieni. Anche nella contemporaneità non mancano gli esempi, e la stessa nozione di "diritti umani", che sembra così univoca e innocente, può rivelarsi un'arma attraverso la quale un potere cerca di convincerci che qualcuno, d'altra parte della barricata, sia meno umano di noi.

“Se qualcuno un giorno dovesse ricercare perché mai fosse scoppiata una guerra così violenta”, “la vera ragione, anche se la meno dichiarata a parole, ritengo sia stata la grande potenza raggiunta dagli uni: essi incutendo timore agli altri, li costrinsero a dichiarare la guerra”. Gli uni non sono gli Stati uniti, gli altri non sono i russi, e l’autore non è un commentatore dell’attuale geopolitica, bensì è Tucidide che parla della guerra del Peloponneso scoppiata più di 2.450 anni fa tra Atene e Sparta, per cui distingue tra “la vera ragione” e invece “i pretesti che da una parte e dall’altra venivano addotti per venire alla guerra” (La guerra del Peloponneso, I,23).

Tucidide non accenna a nessuna motivazione morale, alla difesa di alcun valore o principio. La guerra del Peloponneso è, nella visione di Tucidide, una guerra non ideologica, causata da un semplice squilibrio di potere. E Tucidide formulò la sua lucida analisi nonostante anche allora vi fosse un “eccezionalismo”, in quell’epoca, l’eccezionalismo di Atene: alla fine del primo anno di guerra, nell’onorare i caduti, Pericle pronunciò un elogio di Atene e della sua democrazia (II, 34-45) al cui confronto impallidiscono i richiami alla Città sulla collina di Kennedy e Obama e addirittura alla Splendente città sulla collina[1] di Reagan e Trump. Dice Pericle: “Noi abbiamo una forma di governo che non guarda con invidia le costituzioni dei vicini, e non solo non imitiamo altri, ma anzi, siamo noi stessi di esempio… Quanto al nome essa è chiamata democrazia, perché è amministrata non già per il bene di pochi, bensì di una cerchia più vasta. … In una parola la nostra città nel suo complesso … è la scuola dell’Ellade”. Non a caso Thomas Paine avrebbe scritto nel 1792: “Quel che Atene fu in miniatura, l’America sarà in magnitudine” (non a caso Umberto Eco definì Pericle un “populista”).

Ci sarebbe da domandarsi perché nessuno fornì alla Casa Bianca nel 2021 lo stesso avvertimento che  che i Corciresi dettero ai messi di Atene: “Vi sbagliate se non vi accorgete che gli spartani (i russi) desiderano la guerra proprio perché hanno paura di voi” (I, 33).
Sotto la reticenza ad assumere una prospettiva tucididea serpeggia la convinzione che una guerra non possa essere dichiarata, innescata o dichiarata se non è “giusta”.
Convinzione questa assai balzana, almeno a giudicare dall’esperienza tramandataci per iscritto da 4.000 anni di storia umana. Non fu per far trionfare il diritto delle genti che l’egiziano Ramses II e l’ittita Mutawalli II si scontrarono nella battaglia di Kadesh (1274 a. C.); né Scipione l’Emiliano addusse motivi di umanità per radere al suolo Cartagine (146 a. C.) e cospargere di sale il suolo dove era sorta, perché mai potesse rinascere in seguito. Guglielmo il conquistatore non ricorse a nessuna legittimazione morale per invadere l’Inghilterra, non invocò n…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.