In una delle scene più divertenti e chiacchierate de Il sol dell’avvenire, l’ultimo film di Nanni Moretti uscito in sala e in concorso a Cannes questa primavera, il regista Giovanni, alter-ego di Moretti, ingaggia una tenzone di ore e ore con i protagonisti di uno dei film prodotti dalla moglie, che stanno per inscenare una sparatoria, allo scopo di evitare che diano il ciak a quella che considera una pericolosa oscenità. La scena è rappresentativa del film intero, la rappresentazione di un corpo a corpo di Giovanni con tutti i protagonisti del mondo del cinema con i quali si trova a interagire: dai produttori Netflix che distribuiscono i loro film “in 190 Paesi” agli attori del film prodotto dalla moglie; dalla protagonista femminile del suo stesso film all’amico produttore francese che lo lascia inguaiato e senza fondi, fino ai produttori coreani, che accettano di finanziare la sua opera apprezzandone il lato disperato e senza redenzione. Finché, come sappiamo, Giovanni non decide di cambiare il suo finale, in un moto di ribellione creativa al mondo intero, contro l’accettazione passiva della Storia stessa.
Per Giovanni, accettare che si possa cambiare la nostra ricezione del passato è il presupposto indispensabile per non arrendersi anche di fronte al presente; viceversa, procedere in modo meccanico, passivo, accettare di far sparare una pistola puntata alla fronte perché sì, una pistola che uccide senza una storia “fa male al cinema” perché fa male al mondo. Fa male perché è pornografico, è senza fantasia, è senza vitalità, senza idee.
All’ottantesima Mostra del Cinema di Venezia, tuttora in corso al Lido mentre scriviamo, abbiamo visto alcuni film in cui le pistole sparavano perché sì. Facendo male al cinema e al mondo. Ma ne abbiamo visti altri in cui non andava in scena “il male per il male”. In cui andava in scena la vita, persone che la salvano ad altre persone, persone comuni che di fronte al male, ché il male c’è sempre, continuano a prediligere la vita. La solidarietà, la speranza, non in funzione piattamente moralistica o edificante, ma sentimentale, emotiva dunque cognitiva, giacché la nostra specie conosce sempre per il tramite delle emozioni. E abbiamo visto, sia in sala, sia fuori dalla sala, il cinema e chi lo fa continuare a interrogarsi sulla sua funzione nel mondo, in un ideale dialogo con “Il sol dell’avvenire” e con tanta storia del cinema precedente. Continuare a interrogarsi su chi controlla l’immaginario e su come questo può cambiare, su chi controlla i mezzi di produzione e su come questo può cambiare.
È il caso, per esempio, del gioiello che ha aperto la Mostra, il 30 agosto scorso, il film God is a Woman del regista franco-panamense Andrés Peyrot, che racconta le vicissitudini di un altro film: il documentario sul popolo kuna girato negli anni Settanta dal regista francese premio Oscar Pierre-Dominique Gaisseau, che si fermerà sulla loro isola per oltre un anno, costruendo con gli abitanti del posto un rapporto di grande affetto, tanto che sua figlia, Aikiko, lì si fermerà, integrandosi pienamente nella comunità. Il lavoro di Gaisseau nasceva dalla suggestione che i kuna, una comunità a impronta matrifocale che celebra la pubertà femminile come rito d’iniziazione, e la centralità del principio femminile nella vita della comunità, costituissero una sorta di matriarcato. Per una serie di vicissitudini, fu sequestrato da parte di una banca francese e i kuna non poterono mai vederlo. A distanza di mezzo secolo, mentre Peyrot già lavorava per suo conto sul po…