Presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema qui a Venezia, Making of del regista francese Cédric Kahn accolto da una platea affollata ed entusiasta di cinefili, come Il sol dell’avvenire e come God is a woman di cui parlavamo nella prima parte di questo reportage è un film sul cinema e sul fare cinema, sui tanti piani narrativi che si sovrappongono e montano fra loro, per parlare del presente come di un incontro/scontro fra punti di vista, fra come lo viviamo e come lo vediamo. Lo sguardo del regista si incrocia ed entra in conflitto – la stessa dinamica del film di Moretti – con quello del produttore, dell’attore, delle maestranze, delle comparse piene di sogni e aspettative, e dei protagonisti stessi della storia. In questo caso, la storia è quella della realizzazione di un film sulla lotta, vera, di un gruppo di operai di una provincia francese, per salvare la loro fabbrica e i posti di lavoro, con l’ambizione di collettivizzare la proprietà. Una vicenda simile a quella della fiorentina Gkn (ed è inevitabile far notare che nessun regista italiano ha ritenuto, finora, di fare un film su Gkn). Il famoso, ma stanco e malandato, regista Simon è riuscito a ottenere i fondi da una grande produzione per realizzare il film. Ma fin dall’inizio tutto va storto. E ancora una volta, esattamente come nel film di Moretti ma invertendo, nel suo caso, l’ordine dei fattori fra speranza e tragedia, la questione centrale verte attorno al finale che si vuole dare alla propria storia. “I film francesi sono sempre tutti tragici!”, dice a un certo punto la figlia del regista al padre, invitandolo a cedere al bisogno di una speranza che i produttori gli hanno imposto come conditio sine qua non per finanziare: gli spettatori sono già così affaticati nella vita quotidiana, nessuno vuole farsi angosciare da una storia senza via d’uscita. Ma lui non crede che la storia di una fabbrica occupata, ai tempi del capitalismo fattosi sempre più feroce, possa finire in altro che in tragedia. E d’altro canto, la lotta stessa degli operai, coinvolti come attori nella produzione, non era finita bene. Il tentativo di collettivizzazione non era andato a buon fine, i padroni erano riusciti a riassorbire quasi tutti gli scioperanti attraverso una ricca offerta di liquidazione. I pochi rimasti, infine, sconfitti, avevano deciso comunque di non restituire al padrone i suoi mezzi di produzione. Avevano bruciato i macchinari, come facevano i luddisti, e impedito il ritorno alla normale attività.
Nel film di Kahn – regista non molto conosciuto in Italia, ma molto amato nel suo Paese – il luddismo non viene mai esplicitamente nominato; tuttavia, è un elemento portante della storia. Del luddismo come storico movimento operaio non è giunta, ai nostri giorni, che la banalizzazione operata dal senso comune, quello di stampo classista e razzista per il quale chi si oppone al progresso è un buzzurro reazionario senza appello. I luddisti vengono dipinti così, come analfabeti ignoranti e arretrati che intendevano lasciarci tutti nel buio della miseria. Nella realtà, il movimento luddista fu una spina nel fianco di non poco conto per il capitalismo che in quell’epoca, ai primi dell’Ottocento, sparava in corsa la sua locomotiva. Fu un movimento operaio organizzato e articolato, che aveva lucidamente identificato il problema non nei mezzi di produzione in sé, bensì in chi li controllava, ovvero il padronato. Sabotare i mezzi di produzione era, com’è in Making of, la risposta necessaria quando non ci si tr…