Io, avvocato partigiano di Giustizia e Libertà

In ricordo di Bruno Segre, scomparso pochi giorni fa, ripubblichiamo questo testo tratto da "MicroMega 3/2015" in cui ripercorre gli anni del carcere, le rocambolesche fughe, le amicizie, i due fortuiti incontri con Umberto di Savoia, le battaglie. Il ricordo degli anni dal ’42 al ’44 di un antifascista della prima ora, partigiano di Giustizia e libertà, e successivamente protagonista di tante battaglie per i diritti civili nell’Italia repubblicana, dall’obiezione di coscienza al servizio militare al divorzio. Che si diceva convinto: “Lo spirito della Resistenza vive e vivrà sempre”.

Ho conosciuto il carcere per la prima volta nel dicembre del ’42 perché mi accusavano di «disfattismo» all’università, ovviamente senza nessuna accusa scritta, perché allora la legalità non esisteva. Io facevo delle inezie come antifascista. Sui muri c’era scritto «viva il re» e io ci aggiungevo una «o»: «viva il reo», e stupidaggini simili. Oppure strappavo i manifesti fascisti, insomma facevo queste sciocchezzuole che però non sfuggivano ai delatori. Firpo era direttore del Lambello, di cui io ho la collezione (ho tante collezioni di giornali), che regalerò al museo della Resistenza, del cui comitato direttivo sono membro. E Firpo si distingueva per questo razzismo antisemita. Eravamo amici di famiglia: mia madre era molto amica di sua madre, che era una donna intelligentissima e accompagnava il figlio all’estero quando doveva fare delle ricerche su Campanella nelle biblioteche. Ho citato Firpo per dirne uno, ma potrei fare altri nomi di persone che sono morte. Allora rimasi lì in carcere e feci un’esperienza interessantissima perché mi avevano messo insieme ai detenuti comuni. Le altre esperienze in carcere sono invece del ’44 quando finii prima a via Asti e poi a Le Nuove. Dal ’42 al ’44 frequentavo le carceri come detenuto, dal 47-48 in poi come avvocato.

La prima esperienza è durata circa tre mesi e tutte le amiche di mia sorella si complimentavano e lei diceva: «Io ho il fratello in carcere, è un antifascista!». In carcere feci amicizia con alcuni detenuti, un certo Iena, un certo Rocco, che era sospettato di spionaggio, tutti messi insieme. Stare in mezzo a dei delinquenti è stata un’esperienza brutta ma interessante. Ce n’era uno che non dimenticherò mai: si chiamava Ilario Tighillo, faceva il panettiere lì in carcere e si vantava con gli altri detenuti di tutti i furti che aveva fatto. Poi nel ’44 è successo un fatto che pochi sanno: i tedeschi offrirono la scarcerazione e il trasferimento in Germania di tutti i detenuti per reati comuni e anche lui accettò. Quando fu in Germania ci fu un bombardamento che distrusse una casa e lui da ladro «tutto casa e carcere» andò a rubare le bottiglie di vino. I tedeschi lo sorpresero e lo fucilarono subito. Quindi il suo mestiere gli è costato la vita, per alcune bottiglie di vino…

Uscito dal carcere andai in prefettura, dove c’era la Commissione provinciale. Ricordo che era il Primo Maggio e allora misi una margherita, non potendo mettere il garofano rosso, che mi sembrava una provocazione. La Commissione per il confino – che poteva mandarti al confino, oppure inoltrare una denuncia al Tribunale speciale o darti l’ammonizione o la diffida – mi dette soltanto l’ammonizione: dopo cena non potevo andare in giro. Una stupidaggine. Però tra i giudici c’era un commercialista, che mi disse: «Segre, abbiamo capito perché portava il fiore all’occhiello».

Successivamente la mia famiglia era sfollata a Castelletto di Busco, nel cuneese. Il 9 e 10 settembre mi trovavo a Torino e assistetti alla deportazione dei bersaglieri: in corso Vittorio Emanuele transitava una colonna di bersaglieri e di fianco i tedeschi con le armi. Li portavano a Porta Nuova, alla stazione. Quello stesso giorno, il 10 settembre – doveva essere il 10 perché

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