Quarant’anni fa si tenevano i referendum sulla legge 194; con quel voto, la stragrande maggioranza degli italiani decise di mantenere in vigore la legge, così com’era stata approvata dal parlamento il 22 maggio del 1978. Da allora fu chiaro che l’attacco a una conquista faticosamente raggiunta si sarebbe concretizzato sfruttando gli elementi di compromesso della legge, e contrastandone l’applicazione, a cominciare dal ricorso strumentale all’obiezione di coscienza, che ben presto raggiunse in Italia percentuali disastrosamente alte, non solo tra i ginecologi, ma anche tra gli anestesisti e il personale non medico.
Lo scontro sull’obiezione di coscienza ha finito per congelare il dibattito sull’aborto a 40 anni fa; da allora, nella narrazione dell’aborto, non si può fare a meno della retorica sugli aborti clandestini, né del piagnisteo sull’aborto che per le donne è sempre un dramma, né della enfatizzazione delle conseguenze positive della legge, che avrebbe ridotto drasticamente i tassi di abortività nel nostro paese, come se, qualora questo non fosse successo, la legge avrebbe avuto meno “buone ragioni” di esistere. Da allora, ci sentiamo dire che la legge 194 garantisce l’autodeterminazione e difende la libertà delle donne. Da allora, ci sentiamo dire che la 194 è una buona legge e che qualunque tentativo di cambiarla porterebbe con sé il rischio di una modifica peggiorativa.
In questa narrazione retorica, i concetti di “libertà”, “scelta”, …