Eugène Ionesco e la nostra buffa esistenza

Il 28 marzo 1994 moriva il grande drammaturgo rumeno Eugène Ionesco. Ricordarne la figura e il teatro significa riscoprire il fascino per la sua oscurità buffa, che ci mette di fronte alle nostre esistenze, strabilianti e atroci al tempo stesso, ridicole e tragiche, in cui non c’è la luce di un Dio infinito ad illuminare la via, non c’è speranza o fede ma solo la ricerca del senso in questo costante non senso.

Il Re è disperato. Era convinto di avere un potere infinito, immenso, incorruttibile. Persino il sole obbediva ai suoi ordini, spuntando luminoso nel cielo ad un suo schiocco di dita. Ora invece tutto sembra sfuggirgli di mano. Il Regno è in rovina: la popolazione da nove miliardi si è ridotta a un migliaio di vecchietti, il palazzo Reale è spaccato in due da una crepa e le ragnatele crescono a ritmo infernale accumulandosi negli angoli. Un dramma? Certo, ma non è nulla rispetto alla notizia funesta che sta per arrivare: per Re Bérenger è giunta l’ora. La sua fine è imminente.

Inizia così Il Re muore di Eugène Ionesco (1909-1994), capolavoro nel quale è riassunta tutta la poetica del grande drammaturgo rumeno naturalizzato francese, scomparso a Parigi trent’anni fa. Vale la pena raccontarne la trama, dato che fra i suoi fili è nascosta l’essenza del teatro dell’assurdo ioneschiano.

Il Re, dunque, viene a sapere della sua morte, ma inizialmente non pare troppo turbato: “Certo, so che morirò”, risponde tranquillo al medico che gli ha appena dato la notizia, “Morirò tra quaranta, cinquanta, trecento anni. Più tardi. Quando vorrò, quando ne avrò tempo, quando deciderò io”.

Chi se non lui stesso, sovrano onnipotente, demiurgo di ogni destino, può determinare l’ora e il giorno della sua stessa morte? Sarà la Regina Margherita, realista implacabile, a metterlo davanti alla cruda realtà: “Tu morirai tra un’ora e mezza, morirai alla fine dello spettacolo”.

Inizia così un tragicomico crescendo, in cui il Re, incredulo, si dimena tentando di dimostrare a sé stesso e agli altri di avere ancora in pugno lo scettro del potere e che le illazioni sulla sua morte non sono altro che invenzioni farlocche di congiurati e “bolscevichi”, capeggiati dalla Regina Margherita e dal medico.

Il sovrano si accinge dunque a una dimostrazione pratica della sua forza: comanda che siano lanciati razzi, ma questi si sganciano e subito crollano a terra; intima che cadano le teste della Regina e del medico, ma dopo un piccolo ciondolio, queste rimangono ben ancorate sui rispettivi colli; ordina agli alberi di spuntare dal pavimento, al tetto di sparire, al lampo di palesarsi cosicché lui lo possa afferrare con la mano. Ma nulla di tutto ciò accade. A niente vale l’incoraggiamento dell’altra Regina, Maria, perdutamente innamorata. La corona gli cade, lo scettro anche, il Re non riesce più a stare in piedi, inciampa goffamente precipitando a terra.

È finita. Il sovrano finalmente se ne rende conto: “Perché sono nato se non doveva essere per sempre?”, si chiede allora, inconsolabile.

Ma se la morte è davvero incombente, che almeno il suo ricordo venga perpetuato per l’eternità: “Che tutti sappiano a memoria la mia vita”, sbraita, “che tutti la rivivano. […] Che si distruggano tutte…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.