“I have a dream”, 60 anni dopo

60 anni fa, durante la March for Jobs and Freedom di Washington, Martin Luther King teneva il suo più celebre discorso. Un discorso che nel corso dei decenni è stato spesso svuotato del suo contenuto antagonista in seguito all’estrapolazione delle parti che sembrano invitare soltanto alla concordia. Ma, pur venendo criticato dalla sinistra radicale afroamericana, il reverendo era solito pronunciare parole risolute nonostante i toni accomodanti che le accompagnavano.
I Have a Dream

Riferendosi al primo discorso fatto nel 1955 davanti a migliaia di persone radunatesi alla Holt Street Baptist Church di Montgomery, Alabama, Martin Luther King scriveva: “Come avrei potuto fare un discorso che fosse abbastanza militante da mantenere la tensione verso la mobilitazione e allo stesso tempo abbastanza moderato da mantenere questo fervore entro limiti controllabili e cristiani? (…) Cosa avrei potuto dire per renderli coraggiosi e pronti all’azione positiva, ma privi di odio e risentimento? È possibile combinare militanza e moderazione in un unico discorso?”.

Questo mix di fervore militante e promozione della disobbedienza civile e pacifismo non violento è probabilmente una delle caratteristiche centrali dell’azione e del pensiero del pastore battista divenuto leader dei diritti civili e sociali e assassinato a Memphis il 4 aprile del 1968. All’epoca del suo primo discorso importante il dottor King aveva 26 anni e cominciava a ragionare sulla necessità di dirigere la rabbia della popolazione afroamericana verso l’azione positiva, l’organizzazione, la disobbedienza non violenta.

L’insistenza sulla nonviolenza è quasi onnipresente nei discorsi del leader afroamericano, che stia parlando in una chiesa (per quanto strapiena) o davanti a centinaia di migliaia decine di persone come nel suo discorso più famoso, 60 anni fa all’ombra del Lincoln Memorial a conclusione della March on Washington for Jobs and Freedom. Quella marcia e quel discorso vengono spesso citati come la spallata finale, l’evento visibile e clamoroso che determinò la promulgazione della legislazione sui diritti civili, il Civil Rights Act del 1964 e il Voting Rights Act del 1965 – sospinto a sua volta dalle tre marce tra Selma e Montgomery in quello stesso anno.

Insistenza sulla nonviolenza che venne anche criticata dalla sinistra radicale afroamericana, che in quegli si andava organizzando in altri modi – da Malcolm X al Black Panther Party, che nasceva l’anno dell’assassinio di MLK – perché sentiva che la sola approvazione di leggi federali non avrebbe eliminato il razzismo istituzionale e quello diffuso nella società bianca, specie negli Stati del Sud. Inutile dire che quella sinistra radicale, a prescindere dai metodi, non aveva tutti i torti.

Le morti violente di molti dei grandi leader neri, la risposta delle autorità statali alle marce in Alabama, fino all’assassinio di George Floyd, passando per il pestaggio di Rodney King a Los Angeles nel 1991 ci raccontano come le vittorie degli anni del grande movimento per i diri…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.