Iran, un anno di rivoluzione

È passato un anno dallo scoppio della rivoluzione in Iran per la morte della giovanissima Mahsa Jina Amini, arrestata dalla polizia morale perché "malvelata". Quel velo che ancora oggi è per il governo il pilastro della Repubblica islamica. Un simbolo che ormai è diventato il catalizzatore di una lotta locale nell'alveo di un contesto globale, in una fase di interregno gramsciano.

Labili confini

È passato un anno dall’inizio di quel violentissimo ciclo di proteste soffocate nel sangue che hanno scosso l’Iran per tutto l’autunno del 2022 e la prima parte del 2023. A scatenarle era stata la morte di Mahsa Amini, una giovane donna curda iraniana di 22 anni, che era stata arrestata dalla polizia morale solo due giorni prima, perché malvelata.

Con la parola “malvelata”– in persiano badhejabi – si intende una miriade di cose diverse. È badhejabi chi non copre in modo appropriato i capelli, chi indossa un soprabito troppo attillato o colorato, chi è truccata, chi indossa pantaloni che lasciano scoperte le caviglie, chi ha lo smalto  appariscente, chi i tacchi a spillo… Quando si tratta del corpo femminile, infatti, il confine tra ciò che è troppo o troppo poco è totalmente a discrezione di chi guarda. E chi guarda, in Iran, ha anche un ruolo pubblico: quello di sorvegliare la morale e i costumi delle persone per le strade. Per questo, si può essere arrestate per un velo che lascia intravvedere i capelli, oppure per vestiti troppo appariscenti che non hanno nulla a che fare col velo.

In ogni caso, il confine tra ciò che è badhejabi e ciò che non lo è, ciò che è tollerato e ciò che è sanzionato, è frutto di un costante processo di negoziazione per le strade iraniane, quasi sempre assolutamente casuale.

Faccio un esempio personale: scesa all’aeroporto di Teheran nel luglio del 2022 mi sono accorta che erano tantissime le donne che non indossavano più il velo.  Erano tre anni che non tornavo in Iran e la cosa mi aveva sorpresa. Ho pensato quindi che il velo si potesse togliere e l’ho fatto. Ma dopo qualche giorno sono stata ripresa per essere badhejabi da tre guardiane: tre donne con il chador nero sedute sotto un ombrellone su una spiaggia del Mar Caspio, dove c’erano addirittura un paio di uomini in costume da bagno. Gli uomini si bagnavano mentre io venivo sanzionata perché il velo era sulle spalle. Redarguita da donne. Eppure, anche per gli uomini era proibito starsene in costume in un luogo pubblico. “Quindi?”, ho chiesto alle guardiane.

“Dipende”, mi hanno risposto loro.

Non si può, ma in certi momenti sì, però dai qui te lo permetto mentre lì lascia stare, in altri orari  però forse è possibile, ma adesso è meglio di no, seguici al komiteh che ne parliamo, per cosa…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.