Il populismo polacco, intervista a Sławomir Sierakowski

A pochissime settimane dalle elezioni polacche, nel Paese sta facendo discutere il libro di recente pubblicazione "La società dei populisti", scritto dal sociologo e giornalista Sławomir Sierakowski, fondatore e direttore della rivista "Krytyka Polityczna". Commentando la situazione politica e sociale del Paese, Sierakowski invita a non fare di tutta l'erba un fascio e ad analizzare ogni populismo nazionale come un caso unico e peculiare (operazione che qui compie con quello polacco).

Irena Grudzińska Gross: Con le elezioni previste tra un mese, il suo nuovo libro, Społeczeństwo populistów (“La società dei populisti”), scritto in collaborazione con Przemysław Sadura, viene ampiamente letto e discusso in Polonia. Anche il Primo ministro Mateusz Morawiecki lo ha commentato, sebbene appartenga al partito populista al potere. Perché questo titolo? E come definisci il populismo?

Sławomir Sierakowski: Il populismo è una reazione alle promesse non mantenute della democrazia. O meglio, a ciò che nel mondo globalizzato viene deciso al di fuori delle strutture democratiche di uno Stato dai mercati finanziari, dall’FMI, dagli organismi specializzati e così via. Il populismo è una rivendicazione della voce delle persone. La cosa interessante è chiedersi perché questa reazione apparentemente sana porta a risultati così tristi: la crisi della democrazia e i conflitti internazionali.

Il nostro libro è il culmine di una ricerca che abbiamo condotto in quattro anni. Abbiamo intervistato più di 20.000 polacchi, tenuto decine di focus group e intervistato esperti su vari argomenti. Si è trattato del progetto di ricerca più completo sulla vita politica polacca dal 1989. Il libro, tuttavia, è a carattere polemico. Appartiene accanto ad altri lavori recenti sul populismo come What is Populism? di Jan-Werner Mueller, Twilight of Democracy di Anne Applebaum e How Fascism Works di Jason Stanley. La conclusione principale della nostra ricerca è che la cultura politica populista dell’Europa orientale non può essere messa insieme con quella dell’Europa occidentale. Dipingere con un pennello troppo spesso porta a conclusioni molto banali. Dobbiamo concentrarci meno sulle somiglianze superficiali, come il nazionalismo o il culto del leader, e più sui processi sociali sottostanti.

IGG: Ma questa conclusione non ripropone la vecchia divisione Est-Ovest che ha a lungo plasmato le analisi politiche dell’Europa orientale?

SS: No, perché quella prospettiva non è stata mai effettivamente estesa all’analisi del populismo. In genere i commentatori hanno ridotto il populismo al fenomeno di un unico leader – che si tratti del Primo ministro ungherese Viktor Orbán, del leader del partito al potere in Polonia Diritto e Giustizia (PiS), Jarosław Kaczyński, o Donald Trump negli Stati Uniti. Volevamo comprendere il populismo come un fenomeno sociale. Ciò significava esaminare i fattori sociali specifici dietro le vittorie populiste e poi studiare come queste abbiano cambiato la società. Nessun altro ha affrontato l’argomento in questo modo.

I populisti hanno molte più probabilità di arrivare al potere nell’Europa orientale che altrove. Nell’Europa occidentale c’è solo …

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.