Turchia, una repubblica centenaria e globale

Il 29 ottobre 2023 la Repubblica in Turchia compie cent’anni: una ricorrenza innanzitutto simbolica, che verrebbe da leggere con un filtro puramente storiografico. Ma in alcuni contesti, e in particolare in quello anatolico, i simboli parlano al presente e del presente.

La Turchia si avvia a celebrare la data del 29 ottobre, il centenario della Repubblica. In quella giornata del 1923, la Grande Assemblea Nazionale Turca approvò i tre emendamenti alla costituzione di due anni prima, con cui si faceva dello Stato una Repubblica presidenziale e si rendevano l’islam e il turco rispettivamente religione e lingua ufficiale della neonata nazione. La ricorrenza cade dopo che le “elezioni del secolo” della scorsa primavera hanno nuovamente confermato Recep Tayyip Erdoğan alla carica di presidente, rendendolo il leader più duraturo della storia repubblicana; e il suo partito Akp come maggioranza di governo. Analogie e parallelismi non possono non saltare all’occhio: a cent’anni da quando lo Stato ma soprattutto il popolo turco furono forgiati attraverso le azioni e il pensiero di un “uomo forte” al comando come Atatürk, che governò il primo decennio post-ottomano con piglio sicuramente accentratore e dirigista, ancora è un uomo forte che sembra dettare alla politica e alla società linee di sviluppo nel presente e aspirazioni per il futuro.   

Allo stesso tempo, però, è facile evidenziare le stridenti differenze: Erdoğan, al netto dei toni talvolta eccessivi con cui viene raccontata questa sua caratteristica, è un esponente dell’islam politico di stampo sunnita (proviene dalle fila del partito islamista Refah, sciolto dalla corte costituzionale nel 1998) e nel corso dei suoi mandati è andato certamente a intaccare il principio di laicità dello Stato che rappresentava invece uno dei pilastri della concezione di Atatürk. In più, è lecito chiedersi se in seguito a oltre vent’anni di potere dell’Akp la Turchia sia ancora a tutti gli effetti una “Repubblica”, come andrà a celebrarsi fra qualche giorno: il referendum costituzionale del 2017 ha infatti trasformato l’assetto delle istituzioni nella direzione di un presidenzialismo molto forte e l’autoritarismo dell’attuale leader fa parlare molti osservatori di democrazia controllata quando non di dittatura vera e propria. Ciononostante, e quali che saranno le prossime evoluzioni, l’atto fondativo del 1923 e la figura del “padre dei turchi” restano, anche dopo un secolo, punti fermi nella coscienza collettiva del Paese, con cui anche un capo carismatico e distante dal kemalismo come Erdoğan è costretto a fare i conti. Un recente sondaggio dell’istituto MetroPOLL ha confermato che Mustafa Kemal Atatürk è il personaggio storico più importante per il 58% dei cittadini turchi (seguito, con distacco, da alcuni sultani del periodo ottomano). Inoltre, negli ultimi anni, si è parlato di un vero e proprio revival di popolarità per l’eroe nazionale ed è interessante menzionare il fatto che sia stato lo stesso Akp ad averlo utilizzato come simbolo di coesione trasversale dopo il tentato colpo di Stato del 2016: «La determinazione che ha aiutato Mustafa Kemal a iniziare e vincere la guerra d’indipendenza ha attraversato tutte le città della Turchia il 15 luglio», proclamava Erdoğan a pochi giorni da quell’evento davanti alla folla esultante di Istanbul con riferimento alla volontà con cui le persone comuni si sono opposte ai golpisti. Da lì in poi, il partito di governo avrebbe preso a mostrare con frequenza durante i propri videomessaggi o comizi il ritratto del “padre dei turchi”, rivendicandone dunque l’eredità (almeno parzialmente).

Ma in cosa consiste questa eredità? Come per tutti gli atti fondati di un’entità statutale e di una comunità politica siamo di fronte a una serie complessa di accadimenti, che sono andati assumendo nel tempo significati sfaccettati. Intanto, pensando alla Turchia nel contesto dei primi decenni del Novecento (quando essa era dunque parte dell’impero ottomano in via di scomparsa), è forse bene operare un piccolo riorientamento delle categorie con cui siamo soliti scandire gli eventi di quegli anni: la Grande Guerra, che per tanti Paesi dell’Europa occidentale rappresenta una cesura profonda e irreversibile, si inserisce per le popolazioni anatoliche (e per Mustafa Kemal, che iniziò nel 1899 la sua carriera militare) in una quasi ininterrotta serie di avvenimenti bellici che videro gli ottomani impegnati in vario grado. La guerra contro l’Italia per il controllo della Libia (1911-12), le due guerre balcaniche (1912-13), la Prima guerra mondiale, il coinvolgimento nella guerra civile russa e nei conflitti nel Caucaso (…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.