L’abuso normalizzato. Il cinema degli anni Settanta e le donne

Mentre le donne scendevano in piazza e reclamavano i loro diritti e la propria liberazione, il cinema degli anni Settanta provvedeva a rimetterle al loro posto attraverso la produzione di un immaginario violento, di normalizzazione dell’abuso, dello stupro e persino della pedofilia. Non è la prima volta nella Storia: anche la caccia alle streghe post-medievale, secondo alcune studiose, fu una reazione all’uso che le donne avevano preso a fare dei libri.

Cosa ha fatto il cinema in un momento storico in cui l’emancipazione femminile ha avuto riconoscimento formale e giuridico con le grandi riforme del diritto di famiglia? Due luoghi di libertà si sono contesi il corpo delle donne almeno per un decennio che va dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta: il grande schermo e le piazze femministe. Il grande schermo, gestito da una filiera maschile dominante che occupava lo spazio della creazione, attraversava un momento straordinariamente ricco e forse unico nella sua storia. Il cinema degli anni Settanta era un mezzo egemone di comunicazione di massa che poteva non solo raccontare, ma anche “inventare” le donne, forgiare dive, suggerire nuovi orizzonti e desideri per le spettatrici, fomentare libidini. Orientare un mercato. Creare stereotipi. E poi se ne parlava, dando vita a una florida attività editoriale che camminava in parallelo. Una macchina di desideri, perfettamente oliata, costruita da uomini, che alimentava sé stessa attraverso narrazioni al maschile e un profluvio di desiderabili e monumentali corpi di donne.

Le piazze, dall’altra parte, erano un nucleo di libertà in aperta competizione con il patriarcato. Ovvero, precisamente, con la stessa filiera maschile all’origine della produzione di storie e di identità femminili che hanno poi irrigato l’immaginario e la rappresentazione nei decenni successivi, attraverso il piccolo schermo e il marketing.

Nella sintesi di quello scontro, che include anche la mai abbastanza citata partecipazione delle fotografe femministe che avevano straordinariamente anticipato i tempi, si potrebbe leggere in filigrana il DNA del nostro sguardo di oggi.

Un periodo molto simile a quello, con una “produzione di storie” in competizione con l’emancipazione femminile si verificò nel Cinquecento con l’affermarsi dell’editoria. Parallelamente alla diffusione del libro e alla diversificazione di temi e di contenuti che potevano esulare da quelli religiosi, le donne cominciavano a studiare. A conoscere mondi diversi. A essere esperte di erbe. Curare. Divinare il futuro. Ad avere competenze rispetto alle pareti domestiche e all’accudimento di figli. Un potere non più gestibile.

La giornalista e saggista Mona Chollet – una delle voci femministe più acute e intelligenti nel panorama francese – nel saggio Sorcières (Streghe) afferma che la “caccia alle streghe” inizia con la diffusione di massa del libro, appunto. Alla base delle persecuzioni il timore del desiderio di libertà e di emancipazione d…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.