Il populismo, le élite e la mistificazione linguistica

L’egemonia delle élite si costruisce attraverso il capitalismo sul piano economico, ma si sostiene attraverso la comunicazione sul piano del pensiero. Il linguaggio è sempre stata una leva centrale, negli Stati Uniti in particolare dove la borghesia si è installata in chiave direttamente demofobica, per addomesticare le masse a servire gli interessi delle minoranze ultraricche. La demonizzazione di ogni istanza popolare, derubricata a “populismo”, fa pienamente parte di questa strategia.

La comunicazione è solo un aspetto parziale del linguaggio.
Il linguaggio è anche una facoltà di concettualizzazione,
d’organizzazione del mondo.
Roland Barthes[1]

Gli accadimenti storici non sono possibili senza atti linguistici.
Le esperienze che se ne traggono
non sono comunicabili senza la parola.
Reinhart Koselleck[2]


Parole, non soltanto parole
“Winston ha mobilitato la lingua inglese e l’ha spedita in battaglia”. Così – stando alle cronache (e alla recente ricostruzione cinematografica: il film L’ora più buia) – il conte di Halifax commentò il celebre discorso del primo ministro inglese Churchill ai Comuni: “Abbiamo davanti a noi una prova del genere più doloroso. Abbiamo davanti a noi molti, molti lunghi mesi di lotta e di sofferenza. Chiedi, qual è la nostra politica? Dirò: è la guerra, il mare, la terra e l’aria, con tutta la nostra forza e con tutta la forza che Dio può darci; fare la guerra contro una mostruosa tirannia mai superata nell’oscuro, deplorevole catalogo del crimine umano. Questa è la nostra politica. Chiedi, qual è il nostro obiettivo? Posso rispondere in una sola parola: è la vittoria, la vittoria a tutti i costi”. Il 13 maggio 1943, quando – secondo alcuni – si ribaltò l’andamento del secondo conflitto mondiale e vennero poste le basi per la vittoria delle democrazie sull’apparentemente inarrestabile avanzata del nazismo; in quello che sembrava il loro momento più drammatico. Grazie a un brillante esercizio verbale. Difatti – come ci ricordava anni fa Marco d’Eramo – “i termini della politica vanno considerati non solo strumenti, ma poste in gioco della lotta politica. Quando nel Settecento Voltaire e Diderot si impossessarono della luce della chiarezza (si definivano illuministi) e relegarono gli avversari nell’oscurità (“i secoli bui”), avevano già vinto la partita”[3]. La parola “populismo” si inscrive pienamente in questo gioco di prestigio.

Il guaio è che mentre i venerabili militanti francesi sul fronte della triade Libertà, Eguaglianza e Solidarietà occupavano lo spazio comunicativo per promuovere il sapere aude come progetto politico liberatorio, i loro presunti allievi d’oltreoceano – i Padri Fondatori della repubblica americana – utilizzavano la leva linguistica per tutt’altro scopo: il mimetismo al fine di occultare la natura plutocratico-coloniale propria dell’assetto dominante nelle Tredici Colonie. Ed è da quel momento che tutte le operazioni manipolative del linguaggio partiranno sempre dall’area anglo-americana per andare a svolgere funzioni di consolidamento del potere vigente; obiettivo sottotraccia quanto intrinsecamente demofobico, al limite oscurantista.

In altre parole, a partire dall’ultimo quarto del diciottesimo secolo venne prefigurandosi una caratteristica permanente della politica americana: la leva linguistica utilizzata dai ceti privilegiati, attraverso l’abile uso del convincimento, ottenendo dalle classi subalterne la rinuncia ai propri interessi reali per identificarsi supinamente in quelli dell’élite. Come appunto avvenne al tempo dell’insurrezione iniziata nel 1776, quando le masse popolari del Nuovo Mondo combatterono contro le armate inglesi per consentire al nuovo gruppo dirigente privilegiato di impadronirsi delle terre, dei profitti e del potere politico sottratti all’Impero britannico. E lo storico Howard Zinn scriverà che “la Rivoluzione americana fu un’impresa geniale, e i Padri Fondatori meritano l’omaggio ammirato che è stato loro tributato nei secoli. Crearono il sistema di controllo nazionale più efficace dei tempi moderni e mostrarono alle future generazioni di leader i vantaggi che si ottengono associando il paternalismo al comand…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.