Kenya, 60 anni fa l’indipendenza dall’Impero britannico

Nella mezzanotte tra l’11 e il 12 dicembre 1963 il Kenya diventava uno Stato sovrano. Giungeva al termine così il periodo di dominazione coloniale britannica, una storia fatta di violenze, omicidi, torture, espropriazioni in cui i più basilari diritti umani vennero sistematicamente calpestati. Una storia che sarebbe potuta passare sotto silenzio ma che è stata portata alla luce dal lavoro di coraggiosi studiosi.

In quanti modi ci si può scusare? Il re Carlo d’Inghilterra ne avrà vagliati molti, prima di volare in Kenya il mese scorso. E alla fine ha scelto la prudenza. Nessuna scusa formale, ma “grande dolore e profondo rimpianto” per quanto accaduto in epoca coloniale. Frettoloso, diplomatico, poco convincente. Così è stato recepito dai keniani, le cui ferite sono ancora aperte.

Sono passati esattamente sessant’anni dalla fine della dominazione, da quello scoccare della mezzanotte, tra l’11 e il 12 dicembre 1963. Nel grande stadio appena inaugurato, veniva eseguito per la prima volta l’inno nazionale del Kenya e la nuova bandiera prendeva il posto dell’Union Jack, lasciata scivolare a terra. Nairobi esplodeva in atmosfera di giubilo. Auto in coda bloccavano la città, nell’urlo senza fine dei clacson. Il Kenya aveva ottenuto l’indipendenza. Stato sovrano, libero. Dodici mesi dopo, il grande Paese dell’Est Africa diventerà una repubblica presidenziale, parte del Commonwealth.

Da allora, ogni anno, il Kenya festeggia il Jamhuri Day (jamhuri significa repubblica, in swhaili). I giovani inondano i profili social di messaggi di auguri, condividono meme festosi sugli stati di Whatsapp e proclami patriottici su X. Nelle case si preparano piatti regionali come le samosa o l’ugali (sorta di polenta di mais accompagnata da carne, pesce o verdure), si balla, si alzano calici di birra. Qualcuno approfitta per occuparsi delle decorazioni natalizie, qualcun altro assiste alla pompa delle manifestazioni ufficiali, come la (molto inglese) Trooping of the colors.

I più anziani, invece, guardano al passato. Se lo portano addosso, quel passato funesto; cicatrice di una tra le più cupe esperienze della storia imperiale britannica. Il cui epilogo legale è arrivato solo dieci anni fa.

Tutto iniziò nel 1890, quando la regione, dopo un periodo di dominazione tedesca, divenne parte del Protettorato Britannico dell’Africa Orientale, poi colonia nel 1920. Fin da subito, la fertilità del suolo andò in cima agli interessi inglesi. Insediatisi negli altipiani interni dal clima mite – le White Highlands – decretarono che tutte le terre appartenevano alla Corona e che solo i diritti di proprietà individuale venivano garantiti ai nativi. Nel mondo keniano, dove vigeva il possesso consuetudinario e i beni erano gestiti da comunità (anche di centinaia di persone, mescolate e sovrapposte da rapporti di parentela), questo decreto significava un’alienazione forzata dei fondi. I contadini locali, espropriati dei loro campi, vennero impiegati come manodopera a basso costo nelle vaste piantagioni di tè e caffè. Molti furono spinti nelle “riserve native”, create nel 1904. Il risultato fu che, già nel 1934, i 30mila coloni bianchi, pari allo 0,25% della popolazione, controllavano un terzo delle terre coltivab…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.