Beirut, la città che non crede più a nulla, nemmeno alla guerra

Un tempo la capitale libanese era una sorta di Parigi che racchiudeva il meglio dell’Occidente e del Medio Oriente. Oggi, dopo una sanguinosa guerra civile e altri conflitti che ne hanno deturpato il volto, ai quali si è aggiunta l’esplosione al porto del 2020, è l’ombra dello splendore che fu. Ciononostante, pur rimanendo sempre col fiato sospeso, i suoi abitanti non si rassegnano alla realtà e ne affollano le serate in cerca di vita mondana.

(BEIRUT, Libano) – C’era una volta Beirut. Beirut la bella, la ricca, la colta, la cosmopolita… La città che sapeva raccogliere il meglio di Occidente e Medio Oriente in un unico luogo, sé stessa. Come una Parigi mediterranea affacciata sul lungomare assolato della Corniche.

Esiste ancora quella città, anche se da molto tempo non si sente che l’ombra di quel che era. E sussulta a ogni scambio di colpi tra razzi di Hezbollah e artiglieria di Tsahal, incrociando le dita a ogni dichiarazione degli Ayatollah iraniani come del Governo israeliano. Ha tirato un sospiro di sollievo solo nei sette giorni di una tregua troppo breve e trema ancora, Beirut, spiando i segni di una risalita dello tsunami della guerra oltre la fragile diga della Linea Blu presidiata dai militari – anche italiani – del contingente Unifil. È già successo altre volte, l’ultima durante la guerra che viene ricordata come quella “dei 33 giorni”, deflagrata nell’estate del 2006 in seguito al rapimento da parte dei miliziani di Hezbollah di due soldati israeliani. E che travolse per prima la zona meridionale a maggioranza sciita di Tiro, villaggio di pescatori riconvertito a una precaria vocazione turistica. Dove tutto parla la lingua di una vicinanza con l’Iran che si manifesta anche nei ritratti, appesi a ogni lampione, del leader del Partito di Dio Hassan Nasrallah o del generale Qassem Soleimani, comandante delle Guardie della rivoluzione iraniane, ucciso nel gennaio 2020 da un missile statunitense nei pressi dell’aeroporto di Baghdad. 

Esiste ancora qualcosa di quella Beirut perfino in un tessuto urbano balcanizzato a macchie di leopardo sulla base di appartenenze confessionali, dove una passeggiata nella via sbagliata potrebbe rivelarsi l’errore più grande della propria vita. Nel quartiere cristiano di Achrafieh, per esempio, dove la buona borghesia, che ha il suo riferimento nel quotidiano francofono l’Orient le Jour, usa ancora oggi lasciare cadere con nonchalance alcune parole in francese nella sua parlata beirutina. Che poi si fa presto a dire cristiano, in un Paese che è il meno musulmano dei Paesi arabi e che conta in totale 18 confessioni riconosciute tra le quali ben 12 varianti che si contendono le anime dei battezzati in Cristo: cattolici romani, cattolici maroniti, greco-cattolici, armeno-cattolici, greco-ortodossi, protestanti, solo per citare i gruppi più numericamente consistenti. 

E si ostina a esistere ancora, quella città, soprattutto nel palazzo di Beit Beirut nel quartiere di Sodeco, sede di un’in…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.