Notizie da nessun luogo… O forse dalla Sardegna

Se c’è in Italia una terra che potrebbe sperimentare forme nuove e utopiche di vita autonoma, libera tanto dall’oppressione di Stato quanto da quella del Capitale, questa è la Sardegna. Dove l’assenza di lavoro e la mercificazione selvaggia schiacciano le esistenze delle persone, ma dove le risorse anche storiche, di esperimenti sociali del passato, oltre che naturali e umane consentono di adoperare l’immaginazione per non rassegnarsi alle umiliazioni dell’esistente.

Uno straccio di lavoro
Ad ogni inizio d’estate, per una buona parte della popolazione sarda comincia la “stagione”: la speranza di trovare un lavoro nel turismo, nei bar, ristoranti e alberghi, sulle spiagge e nei ressort, sulle barche degli oligarchi russi e nelle ville dei muy machos italiani. Spesso in nero, e se è in “regola”, con l’obbligo implicito di aggiungervi molte ore di lavoro non pagate. Tre mesi passati a lavorare settanta ore a settimana in condizioni spaventose costituiscono per molti studenti il prezzo per poter continuare il resto dell’anno, bene o male, i loro studi. Quando la stagione si annuncia debole, o addirittura viene quasi a mancare, come durante la pandemia da Covid, o quando i clienti più facoltosi non si fanno più vedere, è catastrofe per tutta l’isola. Bisogna allora sperare di essere reclutati in un call center e ricevere due soldi per farsi mandare tutto il giorno al diavolo da gente esasperata dalle chiamate indesiderate.

Ma bisogna pur lavorare! Correre quattordici ore di seguito da un tavolo all’altro tra clienti scontenti perché non serviti abbastanza rapidamente, pulire i cessi degli yacht, divertire i bambini dei ricchi anche quando non si ha nessuna voglia di ridere, arrotondare la paga mostrandosi “carine” con i vecchi signori, oppure passare l’estate sotto la luce al neon davanti alla cassa di un supermercato, e tutto questo sperando di essere veramente pagati alla fine.. È sempre meglio che non lavorare, cioè rimanere senza soldi!

I sardi si dicono volentieri orgogliosi. Ma cosa c’è di più umiliante di questo tipo di “servizi”? Bisogna allora rimpiangere i tempi dell’industrializzazione? Quando c’era il “vero” lavoro in Sardegna, quello in fabbrica, con tanto di sindacati e contratto nazionale? Neanche i più pazzi o più “progressisti” potrebbero rimpiangere oggi i tentativi di industrializzazione della Sardegna a Ottana o Porto Torres. In poche parti d’Europa l’industria pesante ha mostrato così brutalmente e così visibilmente la sua testa di Gorgone: impieghi (e che impieghi!) per poche persone e per pochi anni in cambio di distruzioni ambientali per secoli (e nemmeno le bonifiche tecnicamente possibili vengono effettuate perché “troppo costose”!) e di un disfacimento irrimediabile del tessuto sociale (che era d’altronde tra gli scopi dichiarati dell’apertura delle fabbriche: un sardo alla catena di montaggio non sarà più un bandito, ma un sindacalista tesserato, si diceva nei ministeri). E stare alla catena di montaggio non costituisce, dopo il carcere, la più grave condizione cui si possa condannare un essere umano?

Sarà allora meglio lavorare nei servizi, essere impiegati, soprattutto pubblici, con un posto fisso – a vita – che tanto facìlita ottenere un mutuo per comprarsi casa? Potrà sembrare meno peggio rispetto alle alternative appena evocate. Ma una vita passata dietro a una scrivania o davanti a uno schermo è una vita felice? Quante volte si fatica per fare cose assolutamente inutili? Quanti impieghi potrebbero sparire senza che nessuno se ne accorga?

Come ci siamo potuti ridurre a questa alternativa, lavorare a ogni costo oppure crepare? Come può una civiltà che si pretende la più ricca mai esistita – quella contemporanea – porre gli umani di fronte all’alternativa tra “morire di fame subito” e “morire di cancro fra vent’anni” – come succede agli operai dell’Ilva a Taranto? Eppure, quanto è forte questo ricatto permanente, questo attacco incessante alla dignità umana proprio in Sardegna, dove il lavoro è una bestia così rara e dove si ritiene fortunato chiunque abbia anche solo uno “straccio di lavoro”, e non è allora il caso di fare pure gli schizzinosi!

Certo, non è colpa del singolo. Finché le cose vanno come vanno, l’obbligo di fare qualsiasi cosa pur di ottenere il denaro indispensabile per sopravvivere vale per tutti. Nessuno sa offrire una soluzione immediata. Ma un conto sono le situazioni a breve termine del singolo, un altro è sapere su che cosa si dovrebbe puntare sul piano politico e sociale.

Bisogna soprattutto smettere di rivendicare la “crescita economica”, lo “sviluppo” e “i posti di lavoro”. Scordiamoci di questi obiettivi! Se nell’immediato è ancora necessario cercare lavoro, come il carcerato non può che rivendicare il rancio, per quanto disgustoso, a livello collettivo, progettuale, “politico”, si deve puntare su obiettivi ben diversi.

La differenza fra attività e lavoro

Ok, ma quali?

Esigere la possibilità di vivere effettuando attività sensate invece di chiedere posti di lavoro. C’è una differenza fondamentale tra l’attività e il lavoro. Non se ne tiene quasi mai cont…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.