Italo Calvino e la fiaba

Nel 1953 l’editore Einaudi diede a Italo Calvino, fino a quel momento impegnato in tutt’altro tipo di letteratura, il compito di lavorare a una raccolta di fiabe italiane. Quell’opera, che si inseriva nel solco della riedificazione di una letteratura nazionale dopo le esperienze del fascismo e della guerra, permise a Calvino a ragionare molto sulla struttura del racconto, portandolo a maturare il suo peculiare stile.

Con un romanzo “neorealista” — Il sentiero dei nidi di ragno del ’47 — e uno cavalleresco-fantastico — Il visconte dimezzato del ’52 — Italo Calvino si stava appena affermando sulla scena letteraria italiana quando, nel febbraio del 1953, l’editore Einaudi gli chiese di realizzare un progetto che lo avrebbe tenuto impegnato per tre lunghi anni.

Le Fiabe italiane, raccolta di antichi racconti tramandati oralmente nelle varie tradizioni dialettali del popolo italiano, avrebbero raggiunto le librerie solo nel novembre del ’56 — dopo un lavoro attento e appassionato che aveva compreso: trascrizioni dalla voce dei cuntastorie, collazione e analisi filologica delle varianti, uno studio approfondito della tradizione fiabesca in Italia e nel mondo, e, infine, la traduzione dai dialetti alla lingua italiana.

La ricostruzione della letteratura italiana

L’operazione editoriale curata da Calvino era di un’ambizione con pochi precedenti nel panorama librario italiano. Nel bel mezzo di quella fase ancora incerta del dopoguerra che i nostri storici già chiamavano “Ricostruzione”, l’Italia cercava con tutti i mezzi di trarsi fuori dalle macerie materiali e morali del Ventennio. Tutto rimaneva da ricostruire, non ultima la cultura. “Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo” — aveva ammonito Elio Vittorini sul Politecnico nel ’43, lanciando così lo slogan della sinistra italiana: “Bisogna creare una nuova cultura”. Slogan che per altro neanche il cattolicesimo progressista disdegnava negli stessi anni: “Noi non sappiamo cosa farcene di una cultura che consoli” — aveva scritto Francesco Balbo nella sua Lettera di un cattolico: “Noi cristiani vogliamo costruire una nuova cultura”. Come avrebbe messo a sommario Romano Luperini, ”le speranze di profondi cambiamenti nella struttura sociale del nostro Paese imposero un’esigenza di radicale rinnovamento della nostra letteratura”.

Come l’editore Einaudi, anche Calvino si trovava allora impegnato, in prima persona, in quest’opera di radicale rinnovamento culturale e letterario. Nel 1955, approssimandosi la pubblicazione delle Fiabe, così scriveva nel Midollo del leone:

“In un articolo di Gramsci abbiamo trovato, citata da Romain Rolland, una massima di sapore stoico e giansenista adottata come parola d’ordine rivoluzionaria: «pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà». La letteratura che vorremmo veder nascere dovrebbe esprimere nella acuta intelligenza del negativo che ci circonda la volontà limpida e attiva che muove i cavalieri negli antichi cantari… I romanzi che ci piacerebbe di scrivere o di leggere… sono le prove che l’uomo attraversa e il modo in cui egli le supera. Lo stampo delle favole più remote: il bambino abbandonato nel bosco o il cavaliere che deve superare incontri con …

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.