Quei palestinesi senza diritti rinchiusi nelle carceri israeliane

Dal 7 ottobre Israele ha avviato una campagna di arresti di massa, sono stati incarcerati circa 5.875 palestinesi e di loro non si ha più alcuna notizia. La detenzione amministrativa comporta lasciare le persone in carcere per mesi o anni senza mai formalizzare alcun capo d'accusa, né comunicare loro eventuali responsabilità penali, o ai loro legali, le presunte prove di reato. Dal 7 ottobre a oggi le condizioni dei palestinesi nelle carceri israeliane sono drammaticamente peggiorate, e le visite sono completamente vietate.

Fatima e Aisha (nomi di fantasia) sono sedute sul divano di casa, nel campo profughi di Aida a Betlemme. Sorseggiano un tè mentre i figli giocano nella stanza accanto. “Sono venuta a vivere qui perché ho paura di dormire da sola a casa mia, ho paura che vengano i soldati, che distruggano tutto o che mi arrestino”, racconta Fatima mostrando le foto della sua casa, ormai vuota da ottobre. Il marito è stato arrestato un anno fa senza accusa né processo, la detenzione amministrativa gli è stata rinnovata ogni sei mesi, quando puntualmente veniva rimandata l’udienza. Sarebbe dovuto essere libero la seconda settimana di ottobre, ma dopo l’attacco del sabato 7, tutto è stato bloccato. Secondo l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, Israele utilizza ormai abitualmente la detenzione amministrativa nei Territori occupati. Nel corso degli anni ha arrestato migliaia di palestinesi, rinchiusi nelle carceri israeliane per periodi che vanno da diversi mesi a diversi anni, senza mai formalizzare alcun capo d’accusa, né comunicare loro eventuali responsabilità penali, o ai loro legali, le presunte prove di reato. La detenzione amministrativa viene usata da diversi Paesi nel mondo, compresi alcuni paesi europei tra cui Grecia e Italia,  nell’ambito delle politiche migratorie. L’ordinamento giuridico di Israele è caratterizzato da un parallelo sistema giudiziario attivo per i palestinesi dei Territori occupati che prevede che ogni comandante dell’esercito israeliano locale, possa diramare un ordine di detenzione amministrativa per ragioni non meglio precisate di  “sicurezza nazionale”. I criteri su cui si fondano i provvedimenti sono di natura segreta e militare e rendono questa pratica giuridica sostanzialmente inappellabile e arbitraria.

“Non abbiamo più nessuna notizia di lui, non sappiamo se mangia, se beve, se sta bene, se l’hanno picchiato, non sappiamo se è vivo”, continua Fatima. Nella casa dove si trova adesso c’è anche sua sorella, da sola con i due figli. “Quando hanno arrestato Ali, mio marito, i bambini stavano dormendo con noi, hanno visto entrare i soldati e portarsi via il padre senza alcun motivo” racconta Aisha parlando del marito, anche lui in detenzione amministrativa nelle prigioni israeliane. “Da allora sono terrorizzati da qualsiasi rumore, se qualcuno bussa alla porta loro scappano in cucina. Ana, la mia figlia più piccola, non ha mai conosciuto il padre, è stato arrestato quando lei aveva tre mesi, è uscito quando aveva due anni e dopo due mesi è stato di nuovo arrestato. Ana non lo riconosce, non sa chi è. Mio figlio Aboud, invece, aveva sei anni durante il primo arresto del padre e ricorda tutto”. Dal 7 ottobre Israele ha avviato una campagna di arresti di massa, sono stati incarcerati circa 5.875 pa…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.