Il genere e il sacro

La separazione dei generi è uno degli aspetti primordiali del sacro. E proprio qui, in questo spazio vediamo innestarsi dinamiche gerarchiche di dominio di un genere (per lo più quello maschile) sull’altro, ma in un universo di varietà culturale talmente articolata, che le gerarchie maschili vengono ciclicamente intervallate da negoziazioni e rovesciamenti a favore delle donne: società matriarcali si alternano a patriarcati, e così per migliaia di anni, in un fluire ondivago di giochi di sacralizzazioni e dissacrazioni, di ruoli dominanti e dominati, che nulla hanno a che fare con il mito del buon selvaggio ma con una costante lotta per mantenere l’equilibrio dell’identità individuale e di gruppo anche attraverso la sacralizzazione della separazione di genere. Finché, a un certo punto, le correnti alternate si irrigidiscono.

Esercizi di stile[1]
Trovatemi una religione femminista. Sfido chiunque a farlo. Una qualsiasi religione giunta fino a noi, che sia femminista. Certo, potete trovare centinaia di figure religiose femminili di spicco nella storia: Santa Teresa di Avila, Rabia al Basri, la profeta Miriam… Potete trovare anche i femminismi religiosi, nati in tempi più recenti: femminismi islamici, cristiani, baha’i, buddhisti… Potete trovare divinità femminili a gogò, specie nel lontano passato: Parvati, Artemide, al-ʿUzzā… Ma per quanto vi mettiate a cercare, dovrete arrendervi alla triste evidenza che nessun sistema religioso è mai stato, né è oggi, “femminista”.

Certo il termine “femminismo” (e il suo aggettivo derivato “femminista”) ha una sua storia e una sua connotazione linguistica così particolare che non vi sono ragioni valide e facilmente intuibili che lo possano accostare alla parola “religione”. Il femminismo, così come lo chiamiamo, nasce infatti all’interno di una prospettiva culturale e politica che ha tentato proprio di uscire da un sistema giuridico, culturale, sociale e religioso che penalizzava il genere femminile rispetto a quello maschile.

Dunque, aspettarsi che una “religione” sia “femminista” è una sorta di paradosso, come aspettarsi che un allevatore di maiali sia vegetariano.

Ed è anche vero che “Nessuna religione è femminista” è un enunciato senza spazio né tempo, mentre sappiamo che la complessità umana nei suoi 250mila anni di storia si manifesta in eventi che avvengono in spazi e tempi precisi, nonché con una diversità così profonda, che generalizzare è impossibile. Detto questo, però, è innegabile che nessuna delle diverse forme che le religioni hanno assunto nella storia è stata particolarmente generosa con il sesso femminile.

Ma perché le religioni odiano le donne o per lo meno le svantaggiano sempre?
Presa coscienza del fatto che nessuna religione esistente oggi è (neanche lontanamente) egualitaria nei confronti dei generi sessuali, non ci si può non chiedere perché questo avvenga.

Fa parte della natura umana?
O forse di quella divina?
È stato un destino ineluttabile?
È legato alla riproduzione?

Molte storiche delle religioni, archeologhe, antropologhe, teologhe[2] hanno impiegato tempo ed energia a rispondere a queste domande. Le risposte sono state svariate e legate alle singole discipline che hanno analizzato il tema.

In ogni caso, dagli anni Settanta dello scorso secolo in poi è andata formandosi una sorta di schema interpretativo comune e trasversale ai diversi ambiti del sapere, che è servito da spiegazione al fenomeno del sistematico svantaggio della posizione femminile all’interno dei sistemi religiosi. Nel corso dei decenni, q…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.