Soddisfatti e radioattivi. La guerra in Ucraina e la minaccia atomica

Martellati dagli orrori perpetrati in Ucraina e dalle nefandezze russe, in Europa ci stiamo dirigendo a passo di carica verso lo scontro nucleare. Tutta la propaganda di guerra è presa da una furia interventista difficile da far rientrare.

Saremo tutti radioattivi e felici. Contaminati e fieri di essere stati nel giusto. Il contatore Geiger ticchetterà impazzito sul trionfo della democrazia contro la barbarie. Perché, incrociando le dita, in Europa ci stiamo dirigendo a passo di carica verso lo scontro nucleare. Avanziamo verso l’irreparabile con la stessa giuliva spensieratezza con cui le potenze precipitarono nella Prima guerra mondiale, almeno a stare al bel libro di Christopher Clark The Sleepwalkers: How Europe Went to War in 1914 (2012). Ma a differenza di allora, il sonno di oggi è una narcosi indotta.

Martellati dagli orrori perpetrati in Ucraina e dalle nefandezze russe, smarriamo la percezione dell’escalation accelerata che si sta producendo da quasi tre mesi sotto i nostri occhi. Non parlo solo dello sforzo bellico sempre più massiccio da parte della Russia e della ferocia sempre più insensata del suo esercito. Né delle sanzioni sempre più pesanti decretate dall’Occidente contro Mosca. E neanche dell’afflusso di armi sempre più sofisticate e potenti dai paesi Nato verso Kiev: di queste ultime si sa molto poco.

L’escalation più preoccupante è quella che riguarda il discorso sulla guerra, il suo registro, in un conflitto in cui la propaganda è il terreno decisivo, forse ancor più dello stesso campo di battaglia. Il tono è definitivamente diventato quello dei “crimini di guerra”, del “genocidio”, delle “atrocità” (prima che cominciasse la guerra avevo già discusso in questa sede l’uso politico delle atrocità). Intendiamoci: certo che atrocità sono state commesse, e altre ne saranno perpetrate. Altrimenti la guerra non sarebbe tale, ma sarebbe un incontro sportivo, un torneo cavalleresco. Per definizione la guerra è atroce. Ma che io sappia, nessuno ha mai definito le bombe su Hiroshima e Nagasaki un “genocidio” o un’atrocità: le atrocità sono compiute in tutte le guerre, ma vengono denunciate solo in alcune.Le categorie dell’atrocità e del genocidio sono chiamate in causa con il preciso scopo di escludere ogni possibilità di trattativa. Non a caso il povero Macron (povero perché snobbato dagli Stati uniti e preso in giro da Putin in inutili ore e ore di discussioni tête à tête) si era opposto all’escalation verbale nell’uso della parola genocidio. Non si può negoziare con un criminale di guerra. Non c’è accordo possibile con chi commette genocidi. Chi perpetra atrocità può essere solo punito. Se Putin è paragonato a Hitler, resta solo da radere al suolo il nuovo Reich. Peggio ancora se si fa entrare in gioco la follia e se si agisce supponendo che il nemico sia pazzo. Allora non c’è proprio modo di ragionare, e non c’è scampo.

E infatti. Chi ricorda più che tra il 28 febbraio e il 10 marzo si tennero quattro giri di negoziati tra Russia e Ucraina (tre in Bielorussia, uno in Turchia)? Allora sembrava possibile, oggi pare inconcepibile. La sensazione che tutti abbiamo avuto fin dall’inizio, e cioè che agli Stati uniti non dispiacesse la prospettiva di un’invasione russa, e che nulla facessero per evitare la guerra, si è confermata sempre più man mano che passavano i mesi. Già all’inizio di marzo, mentre era chiaro che nessuno voleva negoziare, uno dei più famosi studiosi dello stalinismo, Stephen Kotkin di Princeton, per niente affatto tenero nei confronti della Russia, avvertiva in un’intervista al New Yorker:

“Il problema (…) è che è difficile immaginare come procedere a una de-escalation, come uscire dalla spirale del massimalismo reciproco. Continuiamo a innalzare la posta con sempre più sanzioni e cancellazioni. D…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.