Contro l’Occidente. Le premesse storiche e politiche dell’ingresso della Cina in Africa

Le cifre dell’emigrazione cinese in Africa sottolineano l’ultima tappa della globalizzazione, l’incontro tra due realtà che cercano di costruire un assetto politico-culturale nuovo e che, contemporaneamente, cambiano gli equilibri mondiali. Questo avviene anche attraverso l’individuazione di un nemico comune: l’Occidente.

«La presenza cinese in Africa non è solo una parabola della globalizzazione, ma il suo compimento, un sovvertimento degli equilibri internazionali», scrissero i giornalisti francesi Michel e Beuret nel loro celeberrimo Cinafrica. Pechino alla conquista del continente nero, uscito ormai quindici anni fa[1]. E così, mentre l’Occidente era impegnato a vendicare le Torri Gemelle destabilizzando mezzo mondo, i paesi BRICS[2] e soprattutto l’India e la Cina facevano irruzione sulla scena mondiale.

Certo, c’era stato il precedente della conferenza di Bandung del lontano 1955, l’epoca in cui il Sud del mondo alzava la testa, quando il cinese Zhou Enlai, l’egiziano Nasser e l’indiano Nehru riunirono ventinove Paesi dell’Asia e dell’Africa per proclamare il diritto dei popoli all’indipendenza e il loro rifiuto di schierarsi tra Est e Ovest. Bandung fu la consacrazione politica del Terzo Mondo, pose le basi del movimento dei non allineati e diede la speranza di uno sviluppo Sud-Sud. Mezzo secolo dopo i BRICS possono provocare un terremoto geopolitico.

E pensare che ancora nel 2000, Pechino cercava di frenare il movimento migratorio dei cinesi per non intaccare l’immagine coesa del regime. Il cambio di paradigma avvenne nel 1978 con le riforme di Teng Hsiao-ping che adottò il “socialismo di mercato” in luogo della pianificazione centralizzata segnando un distacco dalle politiche maoiste dell’autosufficienza. Se nel 1978 il commercio estero costituiva appena il 7% del pil della Cina, all’inizio degli anni Novanta era salito vertiginosamente al 40. Nel 2002 oltre il 40% del pil della Cina faceva capo a investimenti stranieri diretti, metà dei quali nel settore manifatturiero. Nel mondo in via di sviluppo, la Cina divenne così la maggiore beneficiaria di investimenti stranieri diretti con le multinazionali che sfruttavano con profitto il mercato cinese[3].

Le cifre dell’emigrazione cinese in Africa sottolineano l’ultima tappa della globalizzazione, l’incontro tra due realtà che cercano di costruire un assetto politico-culturale nuovo e che, contemporaneamente, cambiano gli equilibri mondiali. Questo avviene anche attraverso l’individuazione di un nemico comune: l’Occidente. Da oltre un decennio Pechino sfida apertamente i Paesi donatori tradizionali, ovvero occidentali, dichiarando che la Cina sospetta della bontà delle motivazioni che muovono i Paesi Ocse a offrire il proprio aiuto all’Africa. Allo stesso tempo il Partito Comunista Cinese si erge a difensore dell’Africa contro le politiche occidentali cercando, da un lato, di plasmare il proprio ruolo e la propria immagine e, dall’altro, di alimentare il risentimento africano verso l’Occidente. In Africa è infatti opinione diffusa che tutti i problemi legati al debito non siano semplici questioni di carattere economico, bensì strumenti politici che l’Occidente utilizza per minacciare e fare promesse, blan…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.