”La guerra importuna il formicaio della parola”

”Le cose però hanno bisogno proprio di questo, di essere chiamate con il loro nome. Che i crimini siano chiamati crimini. Che la libertà sia chiamata libertà. Che l’infamia sia chiamata infamia.” ”La parola prevarrà” è il discorso di ringraziamento dello scrittore ucraino Serhij Žadan per il Premio internazionale per la pace degli editori tedeschi 2022.

Ha le mani nere e stanche: il grasso gli è penetrato nella pelle, si è cristallizzato sotto le unghie. Di solito, le persone con questo tipo di mani sanno lavorare e amano il proprio lavoro. In cosa consiste, però, il loro lavoro, è un altro paio di maniche. Di bassa statura, taciturno, preoccupato, se ne sta lì in piedi a spiegare qualcosa sulla situazione al fronte, sulla sua brigata, sul veicolo che lui – autista di una delle unità – deve guidare. All’improvviso prende coraggio e dice: “Voi che siete volontari, comprateci un frigorifero”. “E a cosa ti serve un frigorifero al fronte?”, chiediamo sconcertati. “Comunque, se proprio ne hai bisogno, andiamo all’ipermercato, ne scegli uno e te lo compriamo noi”. “Ma no, non avete capito: mi serve una macchina con un frigorifero enorme. Un camion frigorifero. Per trasportare le vittime. Continuiamo a trovare corpi che giacciono al sole da più di un mese, li portiamo via con un minivan, è impossibile respirare”. Parla dei morti e del suo lavoro in modo calmo e misurato, senza alcuna spavalderia, alcuna isteria. Ci scambiamo i numeri. Una settimana dopo troviamo un camion frigorifero in Lituania e lo portiamo fino a Charkiv. L’uomo e un’intera squadra di militari accettano riconoscenti il veicolo e scattano alcune foto insieme a noi come testimonianza. Questa volta il nostro uomo è armato, vestito con abiti puliti. Ma, osservandolo più da vicino, le sue mani sono sempre nere: il suo lavoro quotidiano è duro e le sue mani ne sono la prova.

 

Cosa cambia la guerra, prima di ogni altra cosa? Il senso del tempo, il senso dello spazio. Cambia in un baleno il contorno della prospettiva, il contorno della durata del tempo. In uno spazio devastato dalla guerra, una persona si sforza di non fare piani per il futuro, prova a non pensare troppo a come sarà il mondo domani. Solo ciò che accade qui e ora ha un peso e un significato, solo le cose e le persone che saranno con te al massimo domani mattina – se sopravviverai e ti sveglierai – hanno un senso. Compito principale è quello di rimanere incolumi, di tirare avanti per un’altra mezza giornata. Poi, dopo, diventerà chiaro come agire, come comportarsi, su cosa fare affidamento in questa vita, da cosa, invece, prendere le distanze. Questo vale, in larga misura, sia per i militari che per quelli che rimangono nella zona di contatto con la morte in quanto “civili” (cioè persone disarmate). È proprio questa la sensazione che ti accompagna sin dal primo giorno di una grande guerr…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.