Roe v. Wade, la libertà di abortire e un’America diversa

Il 22 gennaio di quest’anno cade il cinquantesimo anniversario di Roe v. Wade, la storica e rivoluzionaria pronuncia con la quale nel 1973 la Corte Suprema statunitense accordò alle donne americane il diritto di interrompere la propria gravidanza non voluta, dando il via a un fenomeno d’imitazione all’interno di tutto il mondo occidentale.
Roe v. Wade

Gli Stati Uniti, negli anni ’70, erano al culmine di un periodo di straordinario progresso sociale e civile, che aveva visto la vittoria delle lotte per i diritti delle minoranze e dei più deboli. Si stava per chiudere l’epoca del trentennio glorioso, coincidente con il cosiddetto periodo della prosperità condivisa, frutto di quelle politiche redistributive che avevano accorciato le distanze fra i ricchi e i poveri e dato anche agli ultimi la speranza di una mobilità sociale. Erano gli Stati Uniti in cui meno di un decennio prima Lyndon Johnson, nel varare una serie di misure a favore dei più deboli (come i buoni pasto per gli indigenti, l’assistenza sanitaria gratuita per i più poveri o quella calmierata per gli anziani) affermava come fosse finalmente giunta l’epoca in cui ci si sarebbe potuti liberare dal bisogno. Era una società, quella statunitense del tempo, in cui la speranza di vivere in un mondo sempre più giusto ed equo trovava linfa e sostegno nelle politiche concrete dell’amministrazione a favore dell’inclusione e nei riscontri di un PIL il cui incremento si distribuiva grandemente sulla parte bassa della popolazione. Si trattava di un paese che, grazie anche alla sua Corte Suprema, aveva da poco preso le distanze da un passato di vergognose discriminazioni e in cui le lotte di chi era morto per la causa (Martin Luther King, Malcom X) sembravano infine aver avuto la meglio. Fresco era per esempio il ricordo di Brown v. Board of Education, la famosa decisione del 1953 con cui Earl Warren (già governatore repubblicano della California, poi nominato Chief Justice della Corte Suprema dal presidente conservatore Eisenhower) aveva portato una SCOTUS (Supreme Court of United States) unanime a rovesciare il precedente (Plessy v. Ferguson) che imponeva la segregazione dei bambini neri nelle scuole, costringendo il presidente Eisenhower a inviare le truppe federali per sedare i malumori dei governatori, che – come in Alabama, Arkansas o Mississippi – non volevano rispettare quella pronuncia. L’inizio degli anni ’70 rappresentava, insomma, un momento storico di grande fermento, carico di energia positiva e speranza. È in un tale contesto che la decisione Roe v. Wade fu concepita. 

Il caso che nel 1971 si presentava alla Corte Suprema era quello di Norma McCorvey (alias Jane Roe), donna venticinquenne – con già due gravidanze alle spalle, culminate in entrambi i casi in genitorialità adottive – che alla terza gravidanza avrebbe voluto abortire. Dopo aver contemplato l’ipotesi di presentare la sua gestazione come il frutto di uno stupro, nella speranza di aggirare le strette maglie della legge texana che puniva il procurato aborto salvo nel caso in cui si trattasse di salvare la vita della donna, Norma si rivolse a due avvocatesse. Le professioniste iniziarono una class action contro Henry Wade – il District Attorney di Dallas che avrebbe dovuto dare applicazione alla normativa antiaborto contro i dottori che lo avessero realizzato – domandando che la legge fosse dichiarata incostituzionale e al District Attorney fosse ingiunto di non proceder…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.