Il metro dell’intelligenza: cosa ci insegna la storia del QI

Come si definisce e come si misura l’intelligenza umana? Nella comunità scientifica gli approcci sono stati diversi nel corso del tempo e si differenziano anche in base al metodo. Storia breve di un concetto tutt’altro che lineare.
Una figura del test di Binet-Simon

Corsi e ricorsi dell’intelligenza
A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, lo psicologo statunitense naturalizzato neozelandese James Robert Flynn osservò un fenomeno che ancora oggi, ciclicamente, balza agli onori di cronaca. L’effetto che porta il suo nome, “effetto Flynn”, indica l’aumento lento ma costante, per buona parte del XX secolo, del valore medio del quoziente intellettivo (QI) nella popolazione di più di una ventina di Paesi, con un aumento di circa 3 punti ogni decennio[1]. Tuttavia, negli ultimi anni, pare che il trend sia rallentato o abbia addirittura fatto retromarcia in diversi Paesi occidentali (effetto Flynn inverso), con uno studio effettuato su giovani norvegesi maschi di 18-19 anni nati tra il 1963 e il 1991 che conferma un calo di 7 punti di QI in media per generazione a partire dalla seconda metà degli anni Novanta.[2] Le ipotesi esplicative sia per il trend positivo sia per quello inverso sono diverse e controverse: si discute del contributo relativo di fattori educativi e culturali, rispetto a quelli alimentari e genetici, o di correlazioni e interazioni tra genotipo e ambiente.

Questi studi più recenti e il dibattito che ne è sorto, tuttavia, non hanno ancora reso obsolete due domande fondamentali che, anzi, risultano indispensabili per una lettura critica di dati come quelli appena citati. Cosa misurano effettivamente i test del QI e cosa s’intende con il concetto – forse disperatamente polisemico – di intelligenza?

Approcci psicometrici, tra tentativi ed errori
Un’analisi critica dei tentativi di misurare e caratterizzare rigorosamente l’intelligenza viene offerta dal filosofo della scienza Davide Serpico in un recente saggio, L’intelligenza tra natura e cultura (Rosenberg & Sellier 2022)[3], che ripercorre lo sviluppo storico dei test di intelligenza e i principi teorici che ne hanno guidato l’ideazione, dai primi approcci psicometrici fino alle più recenti teorie di stampo neurocognitivo. E, curiosamente, si osserva come i primi tentativi di misurare l’intelligenza abbiano di lungo preceduto quelli di definirla, improntati com’erano a un’urgenza pragmatica, come la valutazione scolastica e la diagnosi clinica.

Questo era il principio che guidò i lavori di Alfred Binet, psicologo francese a cui vengono ricondotte le fondamenta degli odierni test d’intelligenza, originariamente pensati come strumenti per identificare i bambini che non riuscivan…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.