Giornata della Memoria: Karl Jaspers e la questione della colpa

Nella celebrazione della Giornata della Memoria, data simbolo del nostro calendario civile, c’è chi, come Karl Jaspers, tra tormenti e compiti etici ha fatto della responsabilità collettiva della Germania un argomento di sofferte riflessioni.  
Giornata della Memoria: immagine dell'archivio federale tedesco, il boicottaggio di un negozio ebreo da parte delle SA naziste.

                                                                                       “Che noi siamo ancora vivi, questa è la nostra colpa”

Il centro dell’interesse di Jaspers è sempre l’uomo nella sua singolarità, nella sua esistenza come esistenza nel mondo, legata a una situazione di fatto che la condiziona e che la delimita. Nella sua opera più importante, ”Filosofia”, scrive: “Io posso appartenere soltanto ad un unico popolo, posso avere soltanto questi genitori e non altri, posso amare soltanto un’unica donna; tuttavia posso in ogni caso tradire, ma tradirei me stesso se tradissi gli altri, se non fossi deciso ad assumere incondizionatamente il mio popolo, i miei genitori, il mio amore: io debbo loro me stesso”. L’unico modo di essere se stesso è quello di accettare la propria situazione: “Il mio io è identico con il luogo della realtà in cui mi trovo”.

Nel 1937, quando il governo nazista obbligò i professori con moglie ebrea a divorziare o abbandonare l’università, Jaspers, che aveva sposato Gertrud Mayer, un’ebrea, lasciò l’insegnamento. A guerra finita, nel 1945, dalla cattedra di Heidelberg, tenne una serie di lezioni dal titolo “La questione della colpa”, poi raccolte tra il gennaio e il febbraio del 1946 e successivamente pubblicate in un saggio (edito in Italia da Raffaello Cortina Editore).

Ciò che lo spinge a scrivere un’opera in cui cerca di elaborare il lutto della colpa, diventata per l’intera Germania un vero stigma, è il senso profondo di un’intelligenza che deve attraversare il fiume aspro della riflessione, senza tacere, soprattutto senza “rifiutarsi mai di investigare ancora”[1]. Si rivolge ai suoi connazionali: la colpa, infatti, si è proiettata su un intero popolo.

Con spietata onestà, il filosofo si interroga sulle responsabilità tedesche, sostenendo che il problema non deve essere posto dagli altri popoli ma deve essere posto “dai” e “ai” tedeschi stessi. Intanto non bisogna sentirsi superiori per essere sopravvissuti, perché “non lo dobbiamo a noi stessi”: “ogni singolo tedesco, ognuno di noi, deve la libertà che ha di agire nella sua sfera, alla volontà o al permesso degli alleati. Questa è una situazione crudele. La nostra sincerità ci costringe a non dimenticarla mai. Essa ci salva dalla superbia e ci insegna la modestia.” [2] È una dichiarazione forte di umiltà, storica e intellettuale: riconoscere che il proprio destino di uomini liberi dipenda da chi non ha vinto soltanto perché avversario più capace, ma perché era dalla parte del giusto, com’è giusto ciò che è poi accaduto al popolo tedesco, significa, per Jaspers, iniziare un percorso di purificazione che non provenga solo dall’intelletto ma anche dal cuore. …

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.