“El pueblo unido jamás será vencido”: una storia lunga cinquant’anni

La celebre canzone, scritta da Sergio Ortega insieme al gruppo Quilapayún e portata al successo internazionale dagli Inti-Illimani, compie cinquant’anni. Raccontare la genesi di El pueblo unido jamás será vencido significa ripercorrere gli eventi di quel fatale 1973 in Cile, un anno segnato dal golpe del generale Pinochet spalleggiato dalla CIA a danno di Salvador Allende e del suo governo di unità popolare.

Tutti conoscono la canzone El pueblo unido jamás será vencido, scritta nell’aprile del 1973 dal compositore cileno Sergio Ortega. Le traduzioni e gli arrangiamenti di questo brano sono tantissimi: ne esistono versioni in turco, cinese, giapponese, coreano, svedese, danese, finlandese, greco, russo e in moltissime altre lingue e dialetti. Nel corso di questo mezzo secolo di vita la canzone è stata scandita in migliaia di manifestazioni a tutte le latitudini e ancora oggi dimostra la sua vitalità: a fine 2022 ne è stata diffusa in rete la versione Jin, jiyad, azadi, “Donna, vita, libertà” cantata dalle donne iraniane durante le manifestazioni in solidarietà a Mahsa Amini, la giovane curda uccisa dalla Polizia morale dopo essere stata trattenuta perché non aveva indossato il velo in modo corretto.

Non tutti sanno però come nacque questo brano e per raccontarlo è necessario partire dal contesto. Gli ultimi mesi di esistenza di Unidad Popular, la coalizione larga di centro-sinistra con cui Salvador Allende aveva vinto le elezioni cilene nel 1970, furono molto difficili, conflittuali e violenti. Da anni gli Stati Uniti, attraverso il progetto della CIA Fubelt, finanziavano la destra cilena e l’estrema destra di Patria y Libertad con l’obiettivo di fare scoppiare l’economia del Paese[1] perché la via democratica al socialismo del presidente Allende rappresentava un precedente pericoloso per i repubblicani americani: ”Credevamo allora – a mio avviso giustamente – che le istituzioni democratiche cilene sarebbero state annientate senza il nostro aiuto“, scriverà qualche anno dopo l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger,[2] l’artefice principale del colpo di Sato.

Dopo che nelle elezioni parlamentari del marzo 1973[3] Unidad Popular aveva superato il 44%,[4] gli USA avevano intensificato ulteriormente la loro strategia di destabilizzazione del Paese malgrado la destra lo avesse semi-paralizzato con lo sciopero dei medici (all’epoca esisteva solo la sanità pubblica) e dei camionisti: il Cile è un paese lunghissimo e stretto e il trasporto delle merci avviene esclusivamente su gomma. Inizialmente il governo aveva messo i militari alla guida dei camion, ma gli eversori saldavano gli automezzi l’uno con l’altro così da renderli inutilizzabili. Del resto, i camionisti ricevevano soldi dagli Stati Uniti e guadagnavano più a star fermi che a lavorare. “Alla vigilia delle elezioni del marzo 1973, in cui era in gioco il suo destino, [Allende] si sarebbe accontentato …

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.