Volgo riottoso

Dopo ogni disordine che coinvolge i giovani ai quattro angoli del mondo migliaia di pensosi parlatori si chinano compunti a studiare i profondi motivi sociali che suscitato le “violenze”. Non risulta che una simile attenzione venga rivolta alle violenze della polizia, lo strumento principale a disposizione dei poteri per “disciplinare” la propria popolazione. E in effetti c’è da chiedersi perché mai i regimi dovrebbero cambiare un dispositivo disciplinante che funziona così bene, visto che in nessun Paese, nessuna di queste sommosse, agitazioni, rivolte ha mai ottenuto alcunché né mai ha cambiato qualcosa.
Violenze della polizia Francia/Crediti foto: Marco Cesario

In meno di una settimana, dal 27 giugno,  la polizia francese ha effettuato più di 3.000 arresti per reprimere le sommosse. Pochi rispetto ai 22.000 arresti operati dalla polizia iraniana l’anno scorso: ma lì le proteste erano continuate per tutto l’autunno. E comunque meno delle oltre 10.000 persone fermate dalle varie polizie statunitensi nel 2020 nella stagione del Black lives matter: ma anche lì i tumulti erano durati mesi.
Cosa hanno in comune queste tre sommosse in tre Paesi totalmente diversi, a parte il minaccioso invito rivolto da tutte e tre le autorità: “restate in casa la notte, non uscite”? In primo luogo la fascia d’età e la posizione sociale dei “rivoltosi”. Nei tre casi gli arrestati sono nella quasi totalità giovani, sotto i trent’anni e molto spesso sotto i 25. Nei tre casi, i manifestanti appartengono a gruppi in cui la percentuale di Neets (Not in education, employment or training) è spropositatamente superiore alla media nazionale, in Francia e negli Stati uniti per motivi etnico-razziali, in Iran per ragioni generazionali (i giovani di oggi sono sempre vissuti sotto sanzioni economiche americane).  Secondo Maysam Bizaer In Iran la generazione “Z” (da Zoomers) “sta capeggiando le attuali proteste, proprio quando, secondo i dati recentemente pubblicati dal Centro Iraniano di Statistica, circa il 77% degli iraniani tra i 15 e i 24 anni non sta né lavorando, né studiando né è in formazione professionale, con un balzo rispetto al 31% nel 2020”. In Francia, circa 4,3 milioni di persone vivono nelle “Zone urbane sensibili” (Zus: da notare la delicatezza del vocabolario burocratico: un sinonimo di “zone sensibili” è “quartieri prioritari”: ma pare che il dizionario sia l’unico settore in cui le autorità manifestano delicatezza). In queste aree il 25,8% dei giovani è Neet, di fronte a una media nazionale del 12,8%. Stessa sproporzione negli Stati uniti dove i neri sono il 13,6% della popolazione ma il 20,5% dei Neets.
Ma è il secondo fattore in comune che colpisce. In tutti e tre i casi le proteste sono state innescate da violenze della polizia che hanno portato a un’uccisione: quella dell’afroamericano George Floyd a Minneapolis il 25 maggio 2020; quella della giovane curda Mahsa Amini a Teheran il 16 settembre 2022; quella del giovane francese di origine maghrebina Nahel Merzouk a Nanterre (una città satellite di Parigi) il 27 giugno di quest’anno.

Nei tre casi i riflettori sono stati subito puntati sui “vandali”, “teppisti”, “scalmanati”, “criminali” e hanno solo sfiorato le polizie. Nel caso dell’Iran non si sa nemmeno quale poliziotto abbia causato la morte della giovane Mahsa. Nel caso francese, un esponente di estrema destra ha lanciato una colletta per sostenere il poliziotto che ha ucciso Nahel e ha raccolto più di 1,6 milioni di euro prima di essere costretto a  chiuderla.

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Ma c’è un terzo elemento che accomuna queste proteste (e le loro repressioni) con altre proteste anche in altri Paesi, ed è la loro monotona ripetitività. Sempre le stesse scene: vetrine infrante, auto bruciate, qualche supermercato saccheggiato, fumogeni e a volte pallottole della polizia, retate. Immagini che le tv riproiettano nei paesi più disparati, ne…

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