A 30 anni dalla fine della DC, partito dell’italica anomalia

Trent’anni fa, con l’Assemblea Programmatica Costituente del 23-26 luglio 1993, in cui Martinazzoli lanciò l’idea di aprire “la terza fase storica della tradizione cattolico-democratica”, si concludeva sostanzialmente la storia della Democrazia Cristiana. Un partito che ha costituito un’anomalia a partire dal nome, in cui la pratica laica della democrazia era accostata a una fede religiosa. Un’anomalia che è stata anche quella di un intero sistema politico, in cui un partito era necessariamente forza di governo (appunto la DC) e uno necessariamente forza d’opposizione (il PCI). Tutto prima che Tangentopoli aprisse la fase della Seconda Repubblica, che fa spesso rimpiangere il buon tempo antico in cui c’era la DC, tempo che in realtà non è mai esistito.
Democrazia Cristiana

La DC doveva a un tempo motivare la sua propria
natura di partito cristiano, entro cui era latente
l’idea della Cristianità, cioè dello Stato idealmente e
moralmente istituito dalla Chiesa, e la sua funzione
di partito di governo all’interno di un ordinamento
fondato sull’ipotesi liberale”.[1]
Gianni Baget-Bozzo

«L’unica cosa che ha reso tolleranti – con molta
riluttanza – le grandi Chiese moderne è la loro
debolezza politica e la perdita di peso sociale”.[2]
Fernando Savater

18 aprile 1948, quando tutto ebbe inizio

“Vede, il 18 aprile è stata una bella pagina scritta dall’Italia cattolica, un’Italia che per quasi un secolo era rimasta in stato di clandestinità. La vittoria fu della DC, ma questa fu la veste di circostanza della protagonista: l’Italia cattolica, che si era andata preparando per lo meno da tre generazioni a questo grande momento”.[3] Così Enzo Forcella riporta in una sua intervista le parole del professore Luigi Gedda (“un personaggio allucinante”, lo definisce il celebre giornalista), presidente dell’Azione Cattolica e fondatore dei Comitati Civici che svolsero una parte decisiva nel convogliare sulla Democrazia Cristiana i voti delle masse parrocchiali, assicurandole la schiacciante vittoria in quella drammatica elezione in cui si decise non solo la collocazione italiana nello scenario di Guerra Fredda ma anche lo schema dominante della politica nazionale nei decenni a venire.

Quarantacinque anni di dominio della scena pubblica, terminati con la cessazione delle attività il 18 gennaio 1994 e la nascita del Partito Popolare Italiano guidato da Mino Martinazzoli. Una rifondazione di breve durata, anticipata da quella Assemblea Programmatica Costituente, tenutasi a Roma il 23-26 luglio dell’anno prima, in cui Martinazzoli lanciò l’idea di aprire “la terza fase storica della tradizione cattolico-democratica”: “un partito nazionale di programma, fondato sul valore cristiano della solidarietà”. Appunto, il Partito Popolare. Di breve durata.

Comunque, anche in questo estremo tentativo di tenere in vita una struttura organizzativa di ispirazione religiosa si riproponeva la necessità di connotare l’impegno dei cattolici in politica, aggirando la contraddizione, insita già nel nome, tra l’assertività della fede e un pensiero congetturale anti-fideistico (laico) quale quello democratico. Né più né meno il nodo mai sciolto a partire dal 1948, quando i cattolici conquistavano il centro della scena politica senza avere determinato neppure allora l’intrinseca identità della propria organizzazione. Come scrisse l’intellettuale di matrice cattolica Ruggero Orfei, “De Gasperi in verità pensava al ‘partito nazionale’, costituito da cristiani, ma capace di assumere il portato della cultura liberale che si era espresso soprattutto nel regime prefascista. Mentre don Sturzo (il sacerdote storico promotore dell’unità dei cattolici in politica, ndr) era interiormente ostile a quella cultura, De Gasperi ne era attratto, senza peraltro riuscire a rivi…

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