La resistenza dei prigionieri socialisti e anarchici russi nelle carceri bolsceviche degli anni Venti

Nelle carceri dell’Unione Sovietica, spesso ubicate in posti isolati dal mondo, i prigionieri socialisti e anarchici, condannati alla detenzione dai bolscevichi, lottarono per ottenere un diverso regime carcerario politico. Il loro obiettivo era preservare la propria dignità e garantirsi condizioni di vita migliori. Oggi, a circa un secolo da quei fatti, con la Russia che attraversa un altro momento difficile, è fondamentale preservare la loro memoria e quella della loro lotta.

Questo scritto affronta un argomento poco conosciuto e poco studiato, ma estremamente importante, vale a dire la difesa dei propri diritti e della propria dignità da parte di socialisti e anarchici russi ritrovatisi prigionieri politici, o in altre parole, il tema della resistenza in carcere e della lotta per un diverso regime carcerario “politico” negli anni Venti.[1] Va subito specificato che già prima del 1917 i prigionieri politici avevano alle spalle mezzo secolo di lotta per i propri diritti, ma che la formula “regime (carcerario) politico” nacque solo in epoca sovietica, utilizzata ugualmente da detenuti e carcerieri per indicare l’insieme di diritti e condizioni di detenzione per i quali i prigionieri politici si battevano.

Per molti colleghi storici l’argomento ha un’importanza accessoria, se non infima: un atteggiamento, quello nei confronti della resistenza in carcere dei prigionieri politici, che nella storiografia ufficiale è la regola più che l’eccezione. Molti ritengono che la vera scienza sia quella dei programmi e delle idee dei partiti, dei dibattiti teorici o dell’organizzazione interna, delle gesta e delle biografie dei loro membri di spicco. Mentre il modo in cui, in carcere, questi ultimi cercarono di preservare la propria dignità e la propria percezione di sé in quanto persone libere sarebbe qualcosa di poco conto.

In due occasioni, per esempio, mi sono ritrovato a discutere con una ricercatrice (credente) che studiava le biografie dei sacerdoti prigionieri alle Solovki. Come i suoi eroi, anche lei riteneva che un prigioniero potesse solo sopportare le privazioni, dono di Dio, laddove la lotta dei prigionieri politici per i propri diritti era da considerarsi indegna e meschina. Nonostante le mie argomentazioni, non arrivò a capire la logica di una lotta per la dignità e la salute che era intesa a proseguire anche dopo la detenzione.

Neanche la memorialistica dei prigionieri non socialisti, però, è scevra da rimbrotti ai privilegi del cosiddetto “regime politico”, che allora (e ancora oggi) veniva letto da molti in modo del tutto errato: da un lato come un regalo dei bolscevichi ai loro ex compagni di lotta allo zarismo e dall’altro come una forma di mercantilismo sui generis.

La ragione, a mio avviso, è da cogliere nella discrepanza tra il pathos…

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