La guerra di Putin in Ucraina sembra aver spaccato come pochi altri eventi la sinistra internazionale. Ancora dopo quasi un anno e mezzo dall’invasione su larga scala, non esiste un’opinione comune su quale debba essere la posizione dei partiti e delle forze socialiste, comuniste e social-democratiche. Alcuni hanno deciso di appoggiare senza remore il sostegno anche militare al Paese aggredito, altri chiedono lo stop all’invio di armi e promuovono iniziative per un negoziato che lasci intatte le conquiste russe, mentre altri ancora sostengono che le responsabilità per lo scoppio del conflitto vadano ricercate nelle politiche del governo ucraino oppure in quelle degli Stati Uniti e che sia dunque solo in potere di questi ultimi fermare la guerra.
L’impressione è anzi che molte volte si discuta senza che esistano dei minimi punti di realtà condivisa: narrazioni e interpretazioni di segno opposto si rincorrono, le accuse di fascismo e le rivendicazioni di antifascismo si sprecano con riferimento sia a una parte che all’altra. Come mai questa discrepanza radicale di visione sugli eventi est-europei? Pesa, probabilmente, una mancata rielaborazione collettiva di cosa abbia significato il crollo dell’URSS nel biennio ‘89-‘91. Pesa, anche, una scarsa conoscenza e il poco dibattito sul tipo di forze politiche che hanno riempito quel “vuoto” negli Stati che si sono andati formando a Est, laddove la maggioranza dei partiti che si definivano “comunisti” e “socialisti” ha assunto in realtà dei tratti fortemente populistico-clientelari e posizioni estremamente conservatrici dal punto di vista sociale.
D’altro canto, c’è anche chi da una prospettiva extraparlamentare e più “di movimento”, ha provato e ancora prova a utilizzare e reinterpretare l’eredità sovietica in ottica progressista ed emancipatoria, sia a livello teorico che di simbologia. Questo nonostante (o forse proprio perché) su quell’eredità gravi comunque uno stigma non da poco in diversi contesti est-europei, che non ha fatto che intensificarsi per via della guerra in corso: nello specifico dell’Ucraina, per esempio, giova ricordare le leggi di de-comunistizzazione del 2015 e, in seguito al conflitto del Donbas, la messa al bando delle forze partitiche comuniste, fino ad arrivare, in seguito all’invasione, alla progressiva eliminazione dei riferimenti al passato di “dominazione russa”. Come orientarsi dunque in un contesto simile? In che modo valutare il fenomeno della “nostalgia sovietica” che (accanto alla “Ostalgia” nella ex-Germania dell’Est o alla “Jugostalgia” nei Balcani) ha contribuito a modellare la scena politica in Ucraina, Russia e Bielorussia? Più in generale, che farsene oggi – mentre la guerra lanciata da Putin infuria e miete vittime – dell’eredità sovietica a sinistra? Abbiamo provato a discuterne con Volodymyr Artiukh, ricercatore, sociologo e attivista ucraino, membro della redazione di Commons.
Fin dal crollo dell’URSS, il contesto politico est-europeo è stato segnato dal fenomeno della “nostalgia sovietica” o comunque da un panorama per cui, se da una parte diverse sigle e partiti hanno continuato a far riferimento all’eredità sovietica in termini di simbologia e programmi, dall’altro su quell’eredità gravava (in misura più o meno forte a seconda dei Paesi) un certo stigma. Come riassumerebbe queste dinamiche? In che modo la sinistra si è rapportata a tutto ciò?
Per quanto riguarda i partiti “socialisti” e “comunisti” attivi dopo l’‘89, il retroterra marxista e nostalgico dell‘Unione Sovietica costituì fin da subito un elemento su cui improntare la propria partecipazione al “mercato politico” che era andato creandosi negli anni Novanta e 2000. Che tipo di panorama politico si trovavano di fronte? Un panorama in cui fra partiti ed elettori dominavano soprattutto relazioni di tipo clientelare e patrimoniale, rispetto alle dinamiche di …