La donna come soggetto, l’uomo come ruolo. Il vuoto di senso attorno al soggetto maschile nella società è un motore di violenza

I ruoli sociali maschili che il sistema patriarcale ha costruito per incanalare la spinta competitiva maschile sono fragili per definizione. Il femminismo ha fatto esplodere questa fragilità mettendoli in discussione, ma l’unica risposta di cui sono stati capaci finora gli uomini a fronte di questo terremoto è stata quella reazionaria.
violenza maschile

Una donna, una scrittrice di successo, dialoga con una giovane, studente universitaria, che la intervista sul suo lavoro. Dal piano di sopra giunge una musica assordante, è il marito di lei che vuole infastidire in tutti i modi la conversazione, e ci riesce. La ragazza se ne va, l’intervista salta. Poco dopo qualcuno muore. È l’inizio del film “Anatomia di una caduta”, vincitore della Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes.
Un secondo film. Nell’anno 1946, in una stanza di un sottoscala romano, un padre e un figlio si dilettano in una conversazione al maschile; parlano della moglie e nuora, del suo difetto “che risponne”, che va rieducata con le botte, che deve stare sottomessa senza un fiato anche se poi, se piange poverina, dispiace. Lei, Delia, la protagonista di “C’è ancora domani”, risponderà in effetti, di lì a poco. Politicamente.

Fra il tempo in cui avviene “C’è ancora domani” e quello di “Anatomia di una caduta” intercorrono quasi 80 anni in cui è cambiato tutto, per le donne. E anche per gli uomini. Sono cambiati gli assetti istituzionali con l’ingresso di sempre più donne nei ruoli di potere, fin dal principio della Repubblica, fino ad arrivare nel 2022 a una Presidente del Consiglio; è cambiata la partecipazione complessiva delle donne alla sfera pubblica, è cambiato l’equilibrio dei rapporti nelle famiglie, è cambiata la visione che le donne hanno di sé stesse. Siamo tuttora lontanissime dall’aver completato il nostro percorso di liberazione, sia da un punto di vista orizzontale, perché tante donne ancora nel mondo vivono in condizioni di sottomissione inaccettabili, sia per quanto riguarda la profondità stessa della rivoluzione delle donne, che non ha ancora scardinato molti dei nodi più delicati che riguardano la convivenza e il rapporto di potere fra i sessi.

Ma c’è un punto fermo, ed è che il soggetto “donna” ha fatto irruzione nella società senza chiedere il permesso e si è ridefinito politicamente, cominciando da ciò leggiamo nel Manifesto di Rivolta femminile[1] scritto nel 1970 dal gruppo omonimo costruito attorno a Carla Lonzi. “La donna non si definisce in rapporto all’uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà”. E ancora, poco più giù: “La donna come soggetto non rifiuta l’uomo come soggetto, ma lo rifiuta come ruolo assoluto. Nella vita sociale lo rifiuta come ruolo autoritario”.

Chi scrive non è fra quelle che ritengano possa essere risolutiva un’ora ogni tanto di educazione affettiva a scuola per risolvere alcunché riguardo alla lotta contro la violenza sulle donne. Però, se questa ora fosse dedicata in ogni classe d’Italia a riflettere ad alta voce sul senso di questa frase, chissà. Forse davvero potrebbe cambiare qualcosa. Perché le asserzioni contenute in quelle poche parole racchiudono millenni di una esistenza dell’uomo “come ruolo assoluto” e come “ruolo autoritario” che, nel momento stesso in cui è stato messo in discussione dalla rivoluzione femminista, ha fatto erompere il problema più radicale del sesso maschile: la fragilità, per non dire il vuoto, del senso di sé come soggetto. Affinché la donna possa non rifiutare l’uomo come soggetto, occorrerebbe che gli uomini cominciassero a definirsi come soggetto, prendendo atto del fatto che molti ruoli sono venuti a mancare o che si sono completamente trasformati, e non necessariamente a loro svantaggio.

Ma questa riflessione, particolarmente nel mondo del cosiddetto progressismo, gli uomini non l’hanno mai fatta, se non a livello personale e molto iniziale da parte di qualcheduno più sensibile di altri. E hanno continuato a incartarsi attorno al loro ruolo, sempre più soggetto alle turbolenze sociali, non tutte dovute al femminismo. Il risultato è che il sesso maschile, come in modo onesto ha scritto Francesco Piccolo su Repubblica, nei confronti delle donne rischia di assumere un atteggiamento automaticamente reazionario, in senso letterale: accontentarsi di agire una reazione al femminismo, di una reazione alle lotte delle donne per la propria liberazione, di una reazione, spesso violenta, o se non violenta insofferente, infastidita, contrariata e complice della violenza, alla libertà e all’indipendenza femminili. Invece che cercare una strada autonoma e creativa di ridefinizione di sé. Da…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.