Come cambiare atteggiamento riguardo alle catastrofi ambientali

Il nostro cervello non è fatto per relazionarsi ad eventi che ci appaiono lontani e indefiniti ma si attiva solo di fronte a minacce concrete e immediate. Questo fa sì che le catastrofi ambientali non rientrino nello spettro del nostro pensiero quotidiano e di conseguenza del nostro agire. Ma la psicologia sociale ci può correre in aiuto per cambiare il nostro atteggiamento.
atteggiamento

In una conferenza divulgativa, l’eminente psicologo sociale Daniel Gilbert riassume in poche battute la spiegazione dei motivi per cui non ci preoccupiamo delle catastrofi ambientali, del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità o dell’acidificazione degli oceani. I nostri cervelli, rileva, sono organi complessi e potenti che ci garantiscono capacità motorie, logica e pensiero astratto. Evolutivamente, essi si concentrano soltanto sulle minacce a breve termine: chiunque di noi reagisce velocemente se un oggetto sta per colpirlo, perché i nostri antenati avevano allenato una simile abilità per sopravvivere. I nostri cervelli sono invece incapaci di misurarsi adeguatamente con un fenomeno ad ampio raggio che si dispiega lentamente, com’è una catastrofe ecologica. La nostra attenzione, infatti, viene attratta da un evento che sia Intentional, Immoral, Imminent e Instantaneous. “Intenzionale”: la minaccia deve avere un volto umano, contro cui indignarci e rivoltarci, mentre se essa è inanimata, tendiamo a disinteressarcene; “immorale”: l’insidia deve avere un chiaro responsabile, che possiamo perseguire e condannare; “imminente”: il pericolo deve esprimere un irrevocabile carattere di urgenza; “istantaneo”: la crisi deve essere improvvisa, anziché graduale. Ne segue che ci preoccupiamo molto più dell’incidente stradale sotto casa che non dell’Apocalisse planetaria.

Ma non basta. Il recente film Don’t look up racconta un fenomeno ancora più inquietante: quando una cometa sta per colpire la Terra, ossia tutti noi, non reagiamo come quando un oggetto sta per colpire uno di noi. Mentre nel secondo caso perfino un individuo non troppo sveglio scatta per evitare il colpo, nel primo caso, perfino quando l’asteroide è ormai visibile a occhio nudo, parecchie persone possono comportarsi come se nulla fosse, e possono plasmare i propri atteggiamenti in maniera conforme. Il risultato è che soltanto una minoranza si batte per la salvezza, la stessa che alla fine attende consapevolmente l’impatto; gli altri muoiono rifiutandosi di alzare gli occhi al cielo.

L’analisi di Daniel Gilbert è dotata di una solidissima base scientifica.[1] Ma anche la trama cinematografica è attendibile: le ricerche della psicologia documentano la nostra formidabile capacità di orientare le credenze in base a ciò che vorremmo.[2] Per dirla con una frase di rara sinteticità: Man is not a rational animal, he is a rationalizing animal.[3] Appare dunque arduo il compito delle politiche ambientaliste. Le strategie della negazione e della diversione sono i modi tramite cui la maggioranza delle persone affrontano le minacce ecologiche. Con la prima strategia i soggetti cercano di ridurre l’ansia associata alla minaccia, elaborando narrazioni che eludano in tutto o in parte i …

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.