Autonomia differenziata, fermiamola ora o sarà troppo tardi

L’Autonomia Differenziata è un progetto politico che lede la natura della Repubblica Italiana, sancita dalla Costituzione come “una e indivisibile”, foriero non solo di inammissibili disuguaglianze ma anche di inefficienze. Contro di essa si sono espressi costituzionalisti, istituzioni, soggetti politici, sociali ed economici, fino ad arrivare alla Commissione Europea. Eppure il governo procede a spron battuto nel volerla attuare, mostrando i muscoli e tappandosi le orecchie. Contro questo scellerato agire a senso unico bisogna agire ora, altrimenti – considerando il criterio della decennalità – sarà davvero troppo tardi.

In questa sede vorrei far sentire la mia voce non solo come libera cittadina ma soprattutto come portavoce nazionale dei Comitati per il Ritiro di ogni Autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti. I comitati hanno iniziato il proprio lavoro di contrasto al processo di Autonomia Differenziata dall’ottobre del 2018 e in tutti questi anni si sono documentati, hanno svolto azione di studio, (contro)informazione e mobilitazione, facendosi promotori di un tavolo contro l’Autonomia differenziata che raccoglie oggi decine di associazioni, gruppi, sindacati di base, settori del sindacato confederale e partiti politici.

Il nostro lavoro di controinformazione si è reso e si rende necessario perché la maggioranza conta sulla disinformazione dell’opinione pubblica rispetto a cosa sia effettivamente l’Ad e quali ne saranno le conseguenze. Purtroppo abbiamo assistito a un silenzio stampa a livello nazionale e solo poche forze si sono impegnate in un’azione di informazione e di dibattiti pubblici. Oggi certo il tema dell’Ad compare spesso nelle cronache politiche; ebbene, ciononostante una recente statistica ha evidenziato come solo il 19% delle italiane e degli italiani sappiano oggi che cosa effettivamente sia. Noi abbiamo sempre chiesto che si attivassero canali di dibattito pubblico, che venissero coinvolti i Comuni, che le istituzioni pubbliche, a partire da quelle regionali, si facessero promotrici di pubbliche discussioni e attivassero i propri mezzi di informazione, anche social. Nulla di tutto ciò è avvenuto. D’altra parte, quando le istituzioni esperte in materia economica hanno indicato al governo gli effetti devastanti dell’Ad – penso all’UPB, alla Banca d’Italia alla Confindustria, soprattutto quelle del Mezzogiorno – questo ha fatto “orecchie da mercante”. Ai puntuali rilievi critici contenuti anche nelle Memorie consegnate alla I Commissione del Senato e ora a questa Commissione, il governo e la sua maggioranza non hanno mai risposto e hanno proceduto all’approvazione del Ddl Calderoli in un ramo del Parlamento.

Bisogna contrastare questo agire scellerato prima che sia troppo tardi. Il nostro giudizio sulla riforma del Titolo V del 2001 non è soltanto frutto della nostra visione e del nostro sistema di valori, valori tra l’altro che sono quelli della Costituzione, ma si basa anche su alcuni pronunciamenti autorevoli proprio di alcuni costituzionalisti: ad esempio quello del Prof. Gianni Ferrara, che l’ha definita “un manifesto di insipienza giuridica e politica”; quello del Prof. Gian Maria Flick, che in merito all’Autonomia differenziata ha parlato di “riforma frettolosa e disorganica, destinata ad aumentare le diseguaglianze nel Paese”; quello del Prof. Ugo De Siervo, secondo cui si tratta di “una riforma para-costituzionale, una riforma parziale e impugnabile davanti alla Corte, in cui a perdere sono solo gli italiani, che amplia la possibilità di estendere i poteri di alcune Regioni, ma senza modificare le altre norme costituzionali che già esistono”.

Noi comitati riteniamo che un governo che avesse davvero a cuore il Paese avrebbero pensato non all’Ad, ma ad una rivisitazione dell’intero Titolo V, foriero – peraltro – di ricorsi continui in Corte Costituzionale, tanti quanti probabilmente ce ne saranno se l’Ad dovesse diventare legge. Crediamo che l’Autonomia differenziata colpirà, senza distinzione, le cittadine e i cittadini più deboli di ogni parte del Paese, ovunque risiedano, dal momento che essa sottende – come ad esempio dimostrano perfettamente i sistemi sanitari lombardo e laziale, privatizzati per il 50% dal 2001 ad oggi – la ricerca di profitto e dunque la privatizzazione, che escluderà proprio i più bisognosi dall’esigibilità dei diritti universali. Prevedendo l’affiancamento al contratto collettivo nazionale di contratti regionali – e dunque parti diverse tra eguali – l’Autonomia differenziata inoltre costituisce un attacco alle conquiste e ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.

Uno dei settori che verranno più colpiti se l’AD dovesse diventare realtà è quello della sanità. Un recente report della fondazione Gimbe, una fondazione indipendente che da anni analizza il nostro sistema sanitario, evidenziando le conseguenze già drammatiche dell’attuale potestà legislativa concorrente Stato/Regioni in tema di salute, ha dimostrato il cattivo stato della nostra sanità parzialmente privatizzata e regionalizzata, evidenziandone il fallimento nel Mezzogiorno e una difficoltà anche nelle Regioni del Nord. “Catastrofisti”, li ha definiti il 21 marzo il Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, Roberto Calderoli. Certo, catastrofisti come gli scienziati che il 4 aprile hanno parlato di “crisi grave, assistenza a rischio”; come L’Anci, che parla di “gravi tagli alle regioni non autosufficienti dal 2027”; come la Corte dei Conti, con il suo recentissimo documento; come addirittura la CEI – Conferenza Episcopale Italiana – che quotidianamente esprime la propria avversione all’Autonomia differenziata, insistendo sull’aumento delle diseguaglianze che essa comporterà. Da ultimo anche le Acli hanno lanciato l’ennesimo allarme. I “catastrofisti” sono dunque moltissimi e come vediamo tra questi non ci sono solo gli esimi costituzionalisti che ho citato precedentemente. Non c’è che l’imbarazzo della scelta: dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, alla Banca d’Italia, dalla Corte dei Conti fino ad arrivare persino alla Commissione Europea, che in un documento ha affermato: “Nel complesso, la riforma prevista dalla nuova legge quadro rischia di compromettere la capacità delle amministrazioni pubbliche di gestire la spesa pubblica, con un conseguente possibile impatto negativo sulla qualità delle finanze pubbliche dell’Italia e sulle disparità regionali”.

A tali pronunciamenti aggiungo un fatto ugualmente significativo: le dimissioni dalla CLEP, presieduta dal Prof. Cassese, di alcuni degli artefici della Riforma del Titolo V: in particolare Giuliano Amato e Franco Bassanini. È un fatto che indica esplicitamente l’irricevibilità delle procedure che stanno portando alla conclusione di questo percorso e – nella fattispecie concreta – la mancata determinazione dei Livelli Essenziali di Prestazione e la possibilità di procedere sulla base del vincolo di bilancio di sanare le enormi sperequazioni che esistono tra territori nel nostro Paese. L’art. 3 della Costituzione al c. 2 parla chiaro, individuando nei compiti della Repubblica la rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona. Lì risiedono – a nostro avviso – i LEP, e su questo compito il governo dovrebbe insistere in via prioritaria. Non nella frammentazione della Repubblica stessa e nella determinazione dei diritti sulla base del certificato di residenza.

Il 20 febbraio scorso il Ministero della Sanità – ancora non un pericoloso manipolo antigovernativo – ha rivelato che i LEA – Livelli Essenziali di Assistenza – sono garantiti solo in 8 regioni su 20. L’esercizio del diritto universale alla salute è diventato una chimera; tanto più da quando, con la Riforma del Titolo V, sono state avocate alle Regioni – in virtù della potestà legislativa concorrente – importantissime funzioni in quel settore. Le criticità ora non riguardano più solo il Mezzogiorno: le nuove Regioni inadempienti sono quelle del Nord-Ovest (Piemonte e Liguria) e del Centro (Lazio e Abruzzo). Questi dati parlano al cuore del Paese, ma non evidentemente al cuore della maggioranza. Dati che dimostrano chiaramente quanto la gestione regionale della sanità abbia provocato un arretramento generalizzato di un diritto che segna il limite tra la vita e la morte. O, quantomeno, tra una qualità della vita dignitosa garantita dalla Repubblica e da una Costituzione sulla quale i membri del governo hanno giurato.

Perché, dunque, il governo va avanti senza tentennamenti? Come mai non ci si chiede per quale motivo soggetti e istituzioni certamente non “di parte” esprimano un allarme così generalizzato? Per quale motivo un passo di fatto irreversibile non ispira un minimo di cautela, preferendo invece la prova muscolare? Qualsiasi convinzione delle proprie buone ragioni non può non tener conto della valanga di allarmi che su questo stesso governo piove quotidianamente – così è stato nel corso delle audizioni informali in Senato a altrettanto alla Camera dei deputati. Si tratta di catastrofismo o di comprensione profonda e motivata delle conseguenze di carattere amministrativo, legislativo, costituzionale, economico, imprenditoriale, in termini di diritti universali, di diritti sociali e civili, di forma istituzionale della Repubblica, di vulnus alla democrazia? Tutti stanno chiedendo di fermarsi adesso: dopo sarà troppo tardi perché, come predisposto dal testo del Ministro Calderoli, sarà impossibile considerando il criterio della decennalità.

Ministro Calderoli che – in Senato e in diverse dichiarazioni – ha ripetutamente affermato di stare attuando la Costituzione, dimenticando però che la Carta non si esaurisce negli artt. 116 e 117, ma che – nell’ambito dello stesso Titolo V – prevede anche le disposizioni del 119. Prioritariamente inoltre nei primi 12 articoli che ne esplicitano i fondamenti e i principi è affermata l’essenza della Repubblica come “una e indivisibile”.

Alla luce di quei principi, nei quali crediamo profondamente e intransigentemente, e a cui abbiamo ispirato la nostra partecipazione all’“organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (cui ci chiama esplicitamente sempre la Costituzione), vogliamo continuare a esprimere le nostre ragioni, nella speranza che possano apportare riflessioni, dubbi, ripensamenti rispetto ad un progetto di divisione della Repubblica e di frantumazione dei diritti dei suoi cittadini e cittadine, differenziati sulla base del loro certificato di residenza e di un presunto “merito” che non può – pur nella consapevolezza di quanto talvolta la gestione della cosa pubblica al Sud sia stata deficitaria – essere pretesto e condizione per scardinare uguaglianza, solidarietà, centralità della persona umana, regionalismo cooperativo.

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