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Mentre simpatizzo e nel mio possibile appoggio tutti i cittadini russi che mettono a repentaglio libertà e vita per opporsi a Putin, non mi pare invece straordinario il coraggio con cui i leader d’opinione occidentali deprecano la crudeltà del satrapo orientale. Anche per lo sgradevole retrogusto di viltà in quel continuo “Armiamovi e partite” che viene martellato senza sosta da un anno e mezzo: è facile fare gli eroi con la vita degli altri.

Mögen andere von ihren Schande sprechen,
ich spreche von der meine.

Parlino altri della propria vergogna,
io parlo della mia

Bertold Brecht, Deutschland, 1933


Inizio anni Settanta del secolo scorso. Uno statunitense e un sovietico discutono su quale dei loro due regimi sia più libero. Alla fine lo statunitense sbotta: “Ma noi possiamo criticare Nixon!” E il sovietico: “E allora? Anche noi possiamo criticare Nixon”. Si tenga presente che Richard Nixon era assai più che criticabile: la sua amministrazione fu responsabile dei peggiori massacri e bombardamenti in Vietnam, dello sterminio fisico delle Pantere Nere in patria, del sanguinoso golpe del generale Pinochet in Cile, dell’avvio del piano Condor di eliminazione della sinistra in America latina. E chi più ne ha, più ne metta.
Oggi sembra che siamo noi occidentali a trovarci nella situazione del sovietico brezneviano: “Anche noi siamo liberi di criticare Putin”. Sia ben chiaro: Vladimir Putin è un vero reazionario, con la sua visione ottocentesca della nazione, il suo rimpianto per l’epoca degli zar, il suo fervore cristiano ortodosso, la sua alleanza di ferro con una delle gerarchie ecclesiastiche più codine al mondo, la sua visione feudale del capitalismo di stato, la corruzione dilagante che ha consentito e incoraggiato, le sue stragi in Cecenia, la
repressione del dissenso, la suicidaria invasione dell’Ucraina che da un lato ci ha riportato alle anacronistiche guerre territoriali e di trincea, e dall’altro fa rischiare al pianeta un olocausto atomico per un territorio, il Donbass, di cui quasi nessuno dieci anni fa conosceva l’esistenza. Per misurare l’entità del boomerang putiniano, basti pensare che, come ha ricordato Timothy Garton Ash, ancora nel 2013 l’80% degli ucraini aveva un’opinione positiva della Russia. E chi più ne ha, più ne metta. Ma non avremmo ammirato molto i sovietici che nell’era brezneviana avessero criticato con veemenza l’inumanità e la ferocia di Nixon: non ci avrebbe impressionato se qualche esponente di Leningrado lo avesse paragonato a un nuovo Hitler. Nello stesso modo, mentre simpatizzo e – nel mio possibile – appoggio tutti i cittadini russi che mettono a repentaglio libertà e vita per opporsi a Putin, non mi pare invece straordinario il coraggio con cui i leader d’opinione occidentali deprecano la crudeltà del satrapo orientale (ma svanirà mai il liso topos retorico del “dispotismo orientale” del “pentito” Karl August Wittfogel?). Anche per lo sgradevole retrogusto di viltà in quel continuo “Armiamovi e partite” che viene martellato senza sosta da un anno e mezzo: è facile fare gli eroi con la vita degli altri.

La verità è che sotto i nostri occhi sta prendendo corpo un fenomeno inedito, che per alcuni aspetti replica il passato, e però non vi aderisce. Per la divisione del mondo in bianco e nero, in buoni e cattivi, cui assistiamo, ricorderebbe il Maccartismo degli anni ‘50. Per le generazioni che non ricordano, il termine prese il nome dal senatore degli Stati uniti Joseph McCarthy che nei primi anni ’50 del secolo scorso diresse la commissione senatoriale contro le attività antiamericane, e in pratica scatenò la caccia alle streghe contro chiunque (attori, registi, giornalisti, musicisti, scrittori, diplomatici, persino militari) sospettato di essere comunista. Non a caso a questa caccia alle streghe partecipò Wittfogel che nel 1951 accusò il capodelegazione all’Onu e ambasciatore canadese Herbert Norman di essere un agente comunista. Norman negò tutto, ma nel 1957 fu di nuovo posto sotto accusa e si suicidò al Cairo. In nome di una caccia alle spie e ai traditori, il maccartismo privava i suoi bersagli del lavoro, …

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore, Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze, le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.