Mac, 40 anni fa la rivoluzione del pifferaio magico Steve Jobs

Il 24 gennaio 1984 veniva lanciato sul mercato il Macintosh 128K, il primo dei Mac che avrebbero fatto la fortuna della Apple e creato il mito di Steve Jobs. Un mito che ha contribuito a creare e ad alimentare lui stesso, ricorrendo al suo principale talento: quello per il marketing.

La Foxcon, che produce i computer Apple in

condizioni lavorative di super-sfruttamento per il

lavoro migrante della Cina meridionale, registra un

profitto del 3 percento, mentre Apple, che vende i

computer nei paesi metropolitani, fa il 27 percento

Prabhat Patnaik-Utsa Patnaik[1]

I super ricchi si presentano come i salvatori di un sistema che

essi stessi hanno contribuito a creare e ha fruttato loro miliardi.

Le loro donazioni sono dunque i trenta denari versati in cambio

della fine della democrazia

Carl Rhodes[2]

Arriva il Mac, sfida e bellezza

La prima mela maturata sui rami dalla compagnia con sede a Cupertino, la città californiana nella contea di Santa Clara battezzata con il nome di San Giuseppe da Copertino da fra’ Pedro Font, cappellano della spedizione guidata nel 1776 dal conquistador Leon Bautista de Anza, è una via di mezzo tra la sfida lanciata da Eva all’Essere Supremo (nel caso, l’IBM) cogliendo il frutto proibito e la scelta di bellezza (muliebre) a mezzo attribuzione di un pomo dorato da parte del supremo esteta Paride, reincarnato in Steven Jobs. Fuori di metafora, il 24 gennaio 1984 venne presentato il primo esemplare della famiglia Macintosh di computer Apple (dal nome di una varietà di mela, la McIntosh) e “il New York Times scrisse che la Apple era stata per i personal computer quello che il modello T della Ford era stato per le automobili”.[3]

Ecco – dunque – in primo luogo la sfida della leggerezza, soprattutto grazie alle nuove frontiere della microelettronica (strumentalizzata al meglio da un furbacchione di tre cotte quale Jobs) che facevano fare passi in avanti decisivi verso le tecnologie della comunicazione “indossabili”; premessa alle evoluzioni futuribili del transumano in viaggio verso il cyber, in cui si profetizza il potenziamento/sostituzione di organi biologici mediante apparati elettro-meccanici.

Come ci spiega Paul Mason – il giornalista d’inchiesta ex BBC, diventato saggista di successo – “nel 1950 Norbert Wiener, il padre della cibernetica, ammoniva che, se avessimo voluto rimanere una specie capace di autonomia, avremmo dovuto iniziare a trasformare deliberatamente noi stessi: ‘abbiamo modificato il nostro ambiente in maniera così radicale che ora dobbiamo modificare noi stessi per sopravvivere in questo nuovo ambiente’”.[4] E qui il transumanesimo, termine coniato dallo scienziato Julian Huxley nell’ormai remoto 1927, scivola pericolosamente nel post-umanesimo: la creazione inquietante di qualcosa di meglio dell’homo sapiens, liberato, grazie a nanotecnologie, Intelligenza Artificiale e scienze cognitive, e quindi in grado di sconfiggere “l’invecchiamento, le limitazioni cognitive, la sofferenza involontaria, il nostro confinamento sul pianeta terra”.[5] Un delirio fantasy a cui si abbevera sistematicamente la mentalità anarco-libertaria dei signori del silicio, da Larry Page di Google a Mark Zuckerberg di Facebook. Secondo Evgeny Morozov, “il côté sciamanico dell’odierna cultura tecnologica”.[6] A cui – nel caso Jobs – si aggiunge la spasmodica ricerca estetica. Un’ossessione rivolta alle cose, molto meno per quanto attiene al look personale, visto le tenute sbulinate del boss Apple (jeans e sneakers), perfettamente in linea con il cartamodello ideale da miliardario nerd della Silicon Valley.

Riguardo allo specifico del Mac, nel suo celebratissimo discorso ai laureandi della Stanford University del 12 giugno 2005 noto come “Siate affamati, siate folli”, il celebre tycoon dichiarò di aver compreso quanto fosse centrale l’estetico nella sua personale visione delle cose al tempo in cui, studente fuori corso, frequentava le lezioni di calligrafia al Reed College: “Per imparare come riprodurre quanto di bello visto là attorno”. Tuttavia, “nulla di tutto questo sembrava avere speranza di applicazione pratica nella mia vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Macintosh, mi tornò utile. Progettammo così il Mac: era il primo computer dalla bella tipografia. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe avuto multipli caratteri e font spazialmente proporzionate. E se Windows non avesse copiato il Mac, nessun personal computer ora le avrebbe. Se non ave…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.