“La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace”, scriveva Primo Levi in I sommersi e i salvati. Storia e memoria non vanno mai di pari passo, piuttosto la conservazione della seconda aiuta a diffondere la prima. Nel caso della Shoah, il rapporto tra memoria e storia è sempre stato caratterizzato da contrapposizioni e conflittualità. Le dimensioni, le torture fisiche e psichiche, l’uso chirurgico della tecnologia moderna per umiliare e uccidere, hanno reso la Shoah l’archetipo del genocidio, la quintessenza della violazione dei diritti umani. La Shoah è diventata il simbolo della barbarie e dell’odio etnico, religioso e razziale; la sua memoria è andata oltre quella della storia. La Shoah ha assunto con il passare del tempo il ruolo di spartiacque della recente storia europea ed è al centro della costellazione di discorsi con cui definiamo noi stessi e le società in cui viviamo. Ogni evento traumatico, precedente e successivo alla Shoah, appare a seconda dei casi come una derivazione, un’approssimazione per difetto, un simile, un opposto.
Sugli usi e gli abusi della memoria della Shoah esiste una corposa letteratura. Il dibattito si colloca all’interno di una riflessione più ampia circa la “bulimia commemorativa” che caratterizza le società contemporanee, affette dal bisogno compulsivo di costruire identità collettive che ruotano intorno al ricordo di un trauma. Da più parti si ripetono gli inviti alla memoria dei crimini del passato, secondo l’equazione del “ricordare perché non accada mai più”. Una equazione – qualcuno direbbe – ormai priva di significato, ritualizzata da una parte, banalizzata dall’altra, strumentalizzata dai più. L’esercizio della memoria appartiene a una serie di esortazioni diffuse nel discorso pubblico, in apparenza condivisibili da tutti, in quanto rivolte a finalità morali ch…